La Biblioteca di Alessandria è uno dei grandi miti dell’antichità. “Mito” non perchè non sia esistita, ma perchè i racconti su di essa e sulla sua fine sono intrisi di elementi leggendari.
Il più grande contenitore di libri dell’antichità? Probabile (ma conteneva papiri). Un edificio enorme? No, è verosimile fossero almeno due sedi diverse. Distrutta da un incendio? Certo, ma chi, tra gli arabi, i cristiani o Giulio Cesare ne fu il responsabile?
Al di là dei dati, molto confusi, quello che a noi resta è l’immagine di una vera e propria meraviglia dei tempi ellenistici, di cui ad Alessandria d’Egitto non resta nulla: la sua stessa localizzazione è dibattuta. Nel 1974, milletrecento anni dopo la sua definitiva distruzione ad opera degli invasori arabi, nell’Egitto del generale Sadat si decise di procedere alla ricostruzione nella città di un’emula dell’originale. Il successore Mubarak ne fu uno sponsor entusiasta: l’opera pubblica doveva accreditare il governo militare come attento alla eredità egizia ed alla cultura.
Cofinanziata dall’UNESCO, la decisione si tramutò ben presto anche in un omaggio all’antica e leggendaria biblioteca ellenica. Trovato il sito ottimale, affacciato sul Mediterraneo, il passo successivo fu individuare un progetto che permettesse la creazione di qualcosa di unico e ispirato. L’UNESCO organizzò un concorso nel 1988: il vincitore risultò essere uno studio di architettura norvegese, Snøhetta.
Inaugurata nel 2002, la Bibliotheca Alexandrina (questo il suo nome, per evitare confusione con quella antica) riattualizza lo spirito dell’originale, divenendo un monumento eccellente e molto più di una semplice biblioteca. Attualmente contiene un milione e mezzo di libri (ma ha la capacità potenziale di contenerne otto) ed al suo interno sono presenti anche sei biblioteche specialistiche, quattro musei, un planetario, quattro gallerie d’arte e un laboratorio per il restauro di manoscritti. Un vero tempio del sapere, dove si ritrovano soprattutto gli studenti delle vicine università, che vi accedono gratuitamente.
Tramite il pagamento di una piccola somma anche la restante popolazione può usufruire della biblioteca e delle sue strutture.
La sua forma è pressappoco quella di un disco: la scelta di questo impianto vuole essere una raffigurazione dello scorrere del tempo e del flusso costante della conoscenza. L’architettura può vantare dettagli tecnologici molto originali: delle “palpebre” permettono l’ingresso della luce solare direttamente nella sala di lettura ma filtrano anche i raggi in modo che chi si trova dentro non sia abbagliato, mentre una sorta di “ciglia” frenano gli effetti della pioggia, della sabbia e della polvere.
Il tema del fiore di loto adorna il soffitto: è un simbolo ricorrente in tutta la storia della cultura egiziana e nell’egittologia è associato con il sole, la creazione e quindi la rinascita. Il suo valore simbolico in questo luogo è quindi chiarissimo, esplicitando il valore della ricostruzione della biblioteca come rinascita di un grande luogo di idee, conoscenze ed eccellenza.
I materiali utilizzati nella costruzione sono pannelli di legno e granito che servono a ridurre al minimo suono, pur creando un ambiente di grandezza e di semplice eleganza. Il denaro per la costruzione della biblioteca, costata 220 milioni di dollari, proveniva da diverse fonti: 120 dal governo egiziano, 65 dagli stati arabi, e il resto da svariate associazioni. Molti, forse troppi secondo alcuni, in un paese in cui il 40 per cento delle donne è analfabeta.