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perplessità sulla giustizia riparativa

Da Ivy

giustizia riparativa

Stavo per perdere le speranze quando Maurizio Cudicio ha commentato il mio post sulla sicurezza partecipata, invitando a proseguire il discorso sulla sua pagina di Facebook. Grazie, Maurizio!

Continuo però, un discorso sulla falsariga di quel post, cioè su come lo Stato proponga ottime filosofie riguardo le forze dell’ordine ma anche sulla Giustizia, restando però incapace di calarle nella vita reale, e come il sapere nell’isola di Laputa, in Gulliver’s Travels, tutto resti campato per aria. Ne avrei, ma mi limito ad un solo esempio, adeguandomi alla lunghezza dei post.

Ogni tanto dietro ai santini c’è anche una preghiera che finisce con l’avviso che, se recitata (con fede), vale 100, 300… giorni di indulgenza. Si intende, che quella preghiera detta in un paio di secondi accorcia le pene del purgatorio come se avessimo fatto 100, 300 giorni di penitenze (digiuni, sacrifici e quant’altro) chiedendo la stessa cosa, cioè ripagare l’ingiustizia dei nostri peccati. Trattasi di giustizia dell’aldilà.

Mi fermo ora, per un momento sul Purgatorio dantesco. 7 gironi come 7 i peccati capitali, dove scontate le pene l’anima ascende purificata fino al Paradiso. La pena è regolata dalla legge del contrappasso (di solito opposta al peccato commesso).

Secondo Dante si scontato i peccati, e le tendenze a commetterli, e le pene sono accolte con gioia, dato che redimono e saldano i debiti nei confronti della Giustizia divina. Le anime del purgatorio non cercano altro che la riabilitazione fra i santi del Paradiso; e la loro vera pena è quella di essere stati causa del dispiacere di Dio.

Ricordi scolastici riemersi dopo che, l’altra settimana, pensando a cosa scrivere a seguito della lettera di Maurizio a proposito di giustizia e polizia, mi ero rivista il concetto di giustizia riparativa.

La giustizia riparativa si basa sul modello riabilitativo proprio del Welfare State, e venne accolta con grande entusiasmo negli anni ‘70 per poi affossarsi negli ‘80 perché fu messa in luce la sua incapacità di ridurre la recidiva. Ora sta tornando in auge e nei libri di diritto appare spesso come capitolo conclusivo.

Per la giustizia riparativa il reato non è più considerato come offesa allo stato ma offesa alla persona (la vittima). Per questo motivo si affidano alle parti principali (vittima e reo) la ricerca di un accordo di riparazione che sia soddisfacente per entrambe. La particolarità della giustizia riparativa consiste nel fatto che il pagamento del debito alla società e alla vittima non avviene attraverso la punizione ma si fonda sul recupero del senso di responsabilità e nell’intraprendere un’azione in senso positivo per la vittima. In questo modo non solo il debito è saldato direttamente nei confronti della vittima ma si ha anche la rivalutazione della figura del reo mediante un processo di responsabilizzazione dello stesso. Ci si oppone cioè all’idea della sanzione e alla repressione come uniche risposte possibili al fenomeno criminale, proponendosi di correggere il comportamento del reo con una serie di pene alternative alla detenzione in un ventaglio di pene individualizzate. Si vuole mediante una negoziazione tra vittima e autore del reato, arrivare ad un accordo di riparazione del danno derivato dal reato che sia soddisfacente per gli interessi di entrambe e porti alla rieducazione per il reo. La pena individuata (come ad es. la prestazione di un’attività lavorativa a favore della comunità) in questo modo, sarebbe percepita dal reo come equa perché concordata da lui stesso direttamente con la vittima. Non più la sentenza a decidere il giudizio ma le parti (con l’ausilio del mediatore) a raggiungere un’intesa senza subire i traumi di una decisione giudiziale (ecco i principi della mediazione penale). In conclusione, il modello riabilitativo pretende di ridurre il crimine correggendo il comportamento del reo.

Ora, che si pensi a nuovi modelli di giustizia perché spinti dal sovraffollamento degli istituti di pena, e dalla situazione carceraria decisamente intollerabile (un suicidio ogni due giorni, più i tentati suicidi fermati in tempo), posso capire. Ma che si considerino tutti i rei alla stregua delle anime del purgatorio dantesche, che attendono felici di scontare la propria pena per redimersi di fronte alla società, mi par più che dantesco, fantascientifico. Certo, in qualche caso anche sì, ma chi è un delinquente aspetterà solo di continuare ad imbrogliare appena ne avrà di nuovo la possibilità magari facendo più attenzione a non venir scoperto. Lo sa bene che i suoi simili, nella società non sono migliori di lui che è stato sfortunatamente “beccato” e quindi, come vergognarsi di essere reo di fronte ad una simile società (uguale se non “più furba” di lui)? Anzi, la natura umana è conciata in generale così male che anche la giustizia, nei tribunali non funziona come dovrebbe, perché corrotta, con tanto di giudici che premiano chi conviene loro e non l’innocenza. Ma se è questo l’esempio che i grandi “di tutto rispetto” danno, perché i piccoli non dovrebbero fare lo stesso?

Redimere cosa, mi chiedo, chi? Come credere che gli uomini siano volenterosi di redenzione ( e quindi buoni)  come anime purganti? Ma non si guardano in giro? Anzi, ma non si guardano in loro stessi? A cosa serve risolvere questioni giuridiche a tavolino se non si prende in considerazione l’indole umana? Come pretendere simili “redenzioni”, dagli altri quando il sistema della giustizia è in cancrena per la disonestà di chi ne fa parte? Quale lo scopo di questa sconsideratezza, perché ovvio che se ne avvedono… o devo pensare che la gente semplice ha le idee più sottili di chi immerso nel mondo del diritto e della giurisprudenza porta avanti simili filosofie? Per questo post non ho risposte conclusive, solo perplessità…


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