Parliamo di automotivazione. Non motivazione: ma automotivazione.
Il primo grande demotivatore è il mito del talento, sempre più diffuso nella nostra società. Credere ciecamente che il nostro destino sia determinato dalle predisposizioni naturali o dai geni conduce alla passività e alla rassegnazione.
L’automotivazione uno se la deve coltivare: inutile andare in cerca di motivatori esterni, che anzi possono essere controproducenti perché vengono vissuti “dalla maggior parte degli esseri umani come una perdita della propria autonomia”.
Anders Ericsson ha dimostrato che la maggior parte dei c.d. geni sono diventati tali per mezzo dell’applicazione, dell’impegno, non perché dotati di un particolare corredo genetico. Si parla delle 10.000 ore di pratica, il minimo per poter acquisire doti da maestro in un determinato campo. Ma la pratica deve essere intenzionale, cioè deve puntare sempre a qualcosa che non si sa fare bene, non adagiarsi sugli allori e indirizzarsi ad attività che si conoscono a menadito. E questo vale nello studio, nello sport, nel lavoro, ovunque.
Trabucchi ci porta ad esempio gli ultramaratoneti. Che mondo! Gente che corre, corre, corre sempre, per giorni, in piano, in montagna, al freddo, nei deserti, in cima alle montagne più alte del mondo, in mezzo alla giungla. La domanda che mi è sorta, e che sorgerà a chiunque leggerà questo libro, è: CHI GLIELO FA FARE?
Perché gli ultramaratoneti non entrano nell’Olimpo degli sportivi ultrapagati. Non li conosce nessuno, se non gli addetti ai lavori. Sono persone normali, che di giorno lavorano in ufficio, in fabbrica, sulle strade, ma che nei weekend si trasformano in iron men e iron women.
Trabucchi lavora con loro e spesso li accompagna nelle loro avventure. Ha studiato i loro meccanismi di automotivazione e ce li espone, non perché dobbiamo anche noi partire per un ultratrail ma perché l’automotivazione è necessaria in ogni campo: anche nel matrimonio, dico io (visti gli ultimi esempi che mi sono capitati davanti agli occhi… ma sorvoliamo).
E allora:
– no all’atteggiamento del bastone e della carota da parte dei dirigenti di un’azienda. L’atteggiamento prescrittivo produce buoni esecutori, non buoni lavoratori.
– sì alla manutenzione delle relazioni all’interno del gruppo (di lavoro o di sport).
– sì all’autonomia.
E ora, un estratto che troverei utile in molte delle aziende in cui ho lavorato:
Il primo accorgimento sta nell’essere disposti a investire tempo ed energie per stare insieme e conoscere a fondo i membri della squadra. Siamo governati dal falso assunto che le buone relazioni si trovano e non si costruiscono (…). Perciò tendiamo a sottovalutare l’importanza di investire nei rapporti. In realtà è molto più facile ed economico cambiare le relazioni piuttosto che le persone.
Entrare in sintonia con le motivazioni intrinseche altrui, fare sentire le persone capaci, riconoscere le loro competenze e i loro progressi: tutto ciò ha effetti molto più potenti sulla motivazione che non il ricorso agli incentivi o all’autoritarismo.
Però in un contesto quale è il Nordest industriale, la vedo dura. Quegli industriali che si sono fatti da sé, una volta raggiunto l’Olimpo dei benestanti tende a porre dei paletti con i dipendenti. C’è un punto limite oltre il quale la crescita dell’azienda impone questa divisione, credo. Trabucchi: ce lo vedi un Benetton che va a cena con gli operai della fabbrica e si fa raccontare i loro hobby? O che gira tra i cucitrici e chiede cosa cucineranno per cena?