di Lorenzo De Donno
Mutti Adolfo (1893/ 1980), ”Ritratto di donna anziana”
Cesira ed Immacolata. Ho sempre pensato che fossero sorelle e, forse, lo erano veramente. Cesira negli anni 70 era già molto anziana. La ricordo nella sua bottega di via “Pisanelli”, una casa-bottega per la precisione. Più bassa del livello stradale, per accedervi si scendeva un paio di gradini scostando una pesante, quanto rumorosa, tenda antimosche in maglia d’alluminio della quale ti rimaneva immancabilmente qualche catenella sulla spalla legandoti fino a quando non scivolava via dietro ai tuoi passi.
Raramente Cesira era nel locale, più spesso accorreva dal retrobottega al primo tintinnio della tenda di metallo, asciugandosi le mani ed interrompendo la faccenda di casa che in quel momento la impegnava. Era piccola di statura, con un fisico a pera: piccole spalle e grande bacino ma esprimeva, ancora, molta energia nonostante il suo aspetto da sacchetto semivuoto. Il viso era caricaturale: il naso ben evidente ed arrossato dai capillari, i piccoli occhi chiari contornati da borse, i capelli grigi e crespi – simili alla lana d’acciaio – sul collo tagliati di netto “a forbice” come il tetto di una casa. Portava sempre un grembiule azzurro con una grande tasca piena di chiavi e di tanti fazzoletti per via del suo eterno raffreddore dovuto all’umidità della casa e all’assenza di riscaldamento. Ai piedi pantofole di pezza dal colore indefinito che strusciavano, sibilando, il pavimento di chianche consumate.
La sua rivendita era piuttosto buia e l’arredamento essenziale ed approssimativo: due grandi banconi, una bilancia che utilizzava disinvoltamente – anche se nessuno avrebbe messo mai in dubbio la sua capacità di pesare solo con gli occhi una qualsiasi quantità di prodotto – e tanti, tantissimi vasi di vetro contenenti caramelle, liquirizie, confetti vari, giuggiole, mentastre, dolci con la meringa di zucchero, friselle e taralli. Dietro al bancone c’era una grande credenza con vari cassetti vetrati che facevano intravedere i diversi formati di pasta, i legumi, lo zucchero e il caffè. Sulla destra, una cassa-ghiacciaia dipinta di celeste con l’interno di zinco. Nei pomeriggi d’estate si sentiva un secco rumore di martello e scalpello proveniente dal negozietto. Era Cesira che spaccava i blocchi di ghiaccio, portati dalla fabbrica vicina al cimitero avvolti in sacchi di juta bagnata, per ridurli con maestria, in pezzi regolari. Più tardi sarebbero arrivati gli abitanti della zona che, con grandi brocche o catini di creta, ne avrebbero acquistata una quantità sufficiente per rinfrescare l’acqua da bere o per fare le orzate da offrire ai parenti la sera quando, al calar del sole, tutte le sedie di casa venivano portate fuori ed allineate sopra e sotto i marciapiedi (ed ogni amico era il benvenuto).
Cesira non aveva avuto una vita di relazione e, dovendola dire tutta, non era neanche tanto simpatica. Parlava poco, non rideva quasi mai. I ragazzi la trattavano con rispetto perché lei vendeva sfuse, a 1 lira l’una, le caramelline e le liquirizie a forma di pesciolino e con 10/15 lire ci si riempiva la tasca.
Quello che si sapeva della sua vita privata era poco o niente, cosa facesse dei soldi guadagnati con l’attività ancora di meno. Era stata sempre sola e sempre aveva lavorato. Quando era più giovanesi era salvata da un tentativo di omicidio. Un uomo del luogo, fintosi suo spasimante, ne aveva carpita la buona fede sfruttandola per sapere dove nascondesse il denaro e così, in una notte buia di inverno, si era introdotto nella sua casa e l’aveva accoltellata. Poi aveva cercato di gettarla nella cisterna ma la poveretta, opponendosi con tutte le sue forze, si era aggrappata al puteale e, nonostante le gravi ferite, era riuscita a chiamare aiuto e a far accorrere i vicini che l’avevano poi salvata. Il suo spasimante-carnefice era stato arrestato e lei aveva continuato la sua vita fatta di casa e bottega.
Luigi Crisconio (1893-1946), ”Elisa”
Il negozio di Immacolata, non lontano da quello di Cesira, era situato nel bel mezzo della via San Giuseppe quando questa appariva ben lontana dall’immagine attuale di strada dello shopping più o meno di lusso e non ancora “nobilitata” dalle demolizioni che, alcuni decenni dopo, avrebbero creato la piazzetta dedicata ai “Martiri di Via Fani”. Proprio dove oggi c’è un franchising di borse e valigie, negli anni 60 esisteva ancora la merceria di Immacolata, la presunta sorella di Cesira, ancor più presunta perché, nel loro modo di essere, le due donne avevano veramente poco o nulla in comune.
Anche Immacolata era bassa e anziana ma al contrario di Cesira, che dava – come ho detto in modo forse irriguardoso – l’immagine di una pera avvizzita, lei era cicciottella tanto da sembrare “compressa” nei sui abiti neri. Dalle maniche a tre quarti dei golfini, infatti, le spuntavano avambracci, stracarichi di bracciali tintinnanti, simili a salsicciotti ben gonfi nel loro budello. Una collana di perle finte, ingiallite dall’uso, si appoggiava su due tette ingombranti e compresse, anch’esse, nel busto. Aveva una carnagione chiarissima, la pelle solcata da una trama di rughe, capelli ossigenati e messi in piega, le labbra sottili che, fra le guance gonfie, erano sempre truccate con un rossetto “rosso senza compromessi”. Non ricordo il colore degli occhi, tanto erano inaccessibili e nascosti dai cerchi infiniti delle lenti da miope montate su un occhialino a farfalla di celluloide nera, ma ho ben presente la sua voce secca e rauca per il fumo di sigaretta.
Devo fare veramente un forte sforzo per ricordare. Mentre da Cesira ci andavo ogni giorno, da Immacolata ci andavo ogni tanto, per caso, accompagnando la mamma o le zie che si rifornivano di bottoni, aghi e cotoni per il cucito. All’epoca, in famiglia, si poteva fare a meno di molto ma non di una dotazione decorosa da sarta e la manutenzione più necessaria era quella alla Singer, alla Necchi o alla Borletti, prima ancora di quella per la Fiat 500 o per la 600.
Quello che ricordo di quel negozio è un forte profumo, un profumino di quelli che si usavano in quegli anni, stucchevolmente dolciastro. Sapeva un po’ di talco felce azzurra, un po’ di lavanda, un po’ di spezie, un po’ di rose appassite. Dovendo immaginare un nome “anni 60″ per quel profumo direi “Notte d’amore a Bagdad” quando questa era all’epoca solo la fantastica città delle mille ed un notte. Il negozio di Immacolata era ordinatissimo, il bancone era piccolo e stracolmo di scatole, scatoline, grandi rocche di merletto industriale, nastri di tutti i tipi, attrezzi da ricamo e cucito, calze, veli per la messa. L’arredamento era costituito da stipi dipinti (e ridipinti) di bianco latte, appoggiati alle pareti, tanti cassetti con manigliette e pomelli di ottone ai quali corrispondeva una merce diversa. A seconda della lucentezza dell’ottone si poteva indovinare il cassetto dove era custodita la merce più richiesta e quello degli articoli fuori moda. Ad Immacolata, comunque, bastava solo un accenno per trovare subito quello che occorreva alla cliente. Ogni volta che apriva un cassetto, sembrava che gli effluvi di “Notti d’amore a Bagdad” si accentuassero. Forse erano profumati anche i tiretti o forse era il suo profumo personale che, irrorato in generose dosi, si espandeva nell’aria ad ogni movimento del suo corpo.
Anche la vita privata di Immacolata fu sempre molto riservata. Quello che si dice è che, sicuramente, ad un punto della vita ebbe un lutto che la indusse a portare il nero per sempre e ciò quando questo colore non era certo di moda, quantomeno al sud, ma serviva ad esprimere il dolore per la perdita di un caro. Non ho mai saputo se fu sposata e se il lutto lo portasse in memoria del marito ma, comunque, mi piace pensare che lei rimase fedele per sempre al ricordo di una persona speciale che aveva amato da giovane.
Ogni domenica mattina anche lei, come Cesira, la si poteva incontrare a missa matinu, così come si indica col nostro uso dialettale la prima messa del mattino. Si sedeva allo stesso banco di Cesira che arrivava in chiesa ancor prima della sorella Immacolata e ciò sempre che, le due, sorelle lo siano state …