Gli artisti in genere, ma gli scrittori di prosa e poesia specialmente, godono spesso dell’immeritata fama di avere insieme con il talento letterario una personalità letteraria anch’essa. Ciò probabilmente deve a una certa quale impressionabilità da parte del pubblico verso il prodotto artistico, la quale, ben altro che insospettatamente, finisce col persuaderlo dell’esistenza di una falotica possibile natura artistica del carattere personale. Riguardo alla ragione della fortuna di tale pregiudizio mi limiterò a presumere che questo non solo sia piú che accetto fra gli artisti, ma da essi inoltre favorito; specie da coloro che fra questi, per mancanza di doti poetiche, tengono in maggior cura la frivolezza dell’arte.
Dico «gli scrittori di prosa e poesia specialmente» perché quella delle lettere, fra tutte le arti, è da considerarsi almeno la piú, o forse l’unica, dialettica. E al merito del verbo, con altrettanta facilità, è popolarmente attribuita una qualche forma di autorità sociale.
Il problema letterario della presunzione dell’importanza della personalità [letteraria] è evidente in almeno due circostanze.
La prima è quella artistica, e riguarda l’opera d’arte. Nello scrittore dilettante la convinzione dell’importanza della personalità porta a considerare, e infine a produrre, la letteratura come fosse un’espressione della soggettività propria dell’artista, uno sfogo delle sue frustrazioni (quante volte per esso è diffamata!), un’eiaculazione dell’io. Un tale impossessamento dell’opera d’arte da parte della soggettività è tanto distante dai canoni letterari che se ne scoprirono le possibilità simboliche solo dopo le pubblicazioni di Freud sulla psicanalisi. Quindi Joyce lo consacrò a strumento narrativo e, parodiandolo, almeno per quanto mi riguarda, lo estinse per sempre. L’adoperare la scrittura come canale di scolo della soggettività è la prima spesso inevitabile tentazione d’ogni novello scrittore, e l’ultima, se si è cosí fortunati, a estinguersi. Ma la personalità non può invadere l’opera d’arte, deve invece carburarla: essere il motore di una energia centrifuga di cui solo il risultato è infine l’opera d’arte.
È banale ma necessario osservare inoltre che quella che viene chiamata una personalità letteraria è tale solo secondo una localizzazione convenzionale dei luoghi letterari, e ha un uso piú antonomastico che sostanziale. Idem per la personalità artistica, che con la prima è semplicemente in rapporto di iperonimia. Invece è forse meno evidente la questione della personalità creativa, ma basti suggerire che in molti campi non necessariamente artistici la creatività è qualità assai preziosa, in alcuni di questi forse anche piú che nella letteratura.
La seconda circostanza in cui il problema letterario della personalità si mostra è quella sociale, e riguarda la natura dell’artista. Possono esistere personalità originali (che ora verranno chiamate letterarie, ora invece creative), ma che queste contribuiscano alla riuscita letteraria è quantomeno infondato e, sempre a mio avviso, frutto di rappresentazioni stereotipate dell’arte. Un carattere di grande originalità come fu quello di Oscar Wilde poté forse contribuire all’originalità dei temi trattati, ma poco o per niente a quella letteraria. E mentre la soggettività rischia di mostrare un’immaturità artistica o un narcisismo malcelato, la fuga verso simboli universali sviluppa nell’artista il necessario occhio critico.
Sono fortunato, perché ancora Wilde mi offre per caso un esempio conclusivo, particolarmente efficace per il trionfo dell’egocentrismo che apparentemente vuole essere. A proposito dei personaggi del Ritratto di Dorian Gray, nel suo consueto stile epigrammatico, scrive in una lettera:
«Basil Hallward è ciò che penso di essere: Lord Henry è ciò che il resto del mondo pensa che io sia: Dorian è invece ciò che vorrei essere – in altre età, magari»1.
Emiliano Garonzi
1. “Basil Hallward is what I think I am: Lord Henry is what the world thinks me: Dorian is what I would like to be—in other ages, perhaps“.