I film non cambiano, ma chi li guarda sì. Quando vidi “La Dolce Vita” nel 1960, ero un adolescente per cui quel nome rappresentava tutto ciò che avevo sognato: peccato, fascino esotico europeo, il romanzo consumato del reporter cinico. Quando lo vidi la seconda volta, attorno al 1970, vivevo in una versione del mondo di Marcello (Mastroianni, Nda); la North Avenue di Chicago non era Via Veneto, ma alle 3 di notte i residenti erano altrettanto vivaci, ed avevo più o meno l’età di Marcello.
Quando vidi questo film verso il 1980, Marcello aveva la stessa età, ma io avevo 10 anni in più, avevo smesso di bere, e lo vidi non come un esempio ma come una vittima, condannato a una ricerca senza fine della felicità che non poteva essere trovata – non in quel modo. Nel 1991, quando analizzai il film frame dopo frame all’università del Colorado, Marcello sembrava ancora più giovane, e mentre una volta l’avevo ammirato e poi criticato, adesso mi faceva provare pietà e volergli bene. E quando vidi il film subito dopo la morte di Mastroianni, pensai che Fellini e Marcello avessero preso un momento di scoperta e l’avessero reso immortale. La dolce vita potrebbe non esistere. Ma è necessario che ognuno lo scopra da sé.
Rogert Ebert, critico cinematografico del Chicago Sun-Times morto tre giorni fa, chiudeva così una delle sue tante recensioni del film di Fellini – uno dei suoi preferiti. Era il 1997.
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