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Persone senza tempo

Creato il 28 novembre 2011 da Cultura Salentina

di Luca Portaluri

Persone senza tempo

© Pasquale Urso: Lavoro nel vicolo (incisione)

Usciva di casa sempre verso quell’ora, all’una di notte, o giù di lì, forse adesso incombendo la stanchezza “anagrafica”, partirà qualche ora dopo, ma in ogni caso prima delle prime luci del giorno: lo so perché spesso sento il rumore della sua vecchia Fiat 500 color azzurro indugiare a 30 metri da casa mia, lui diretto al suo  invidiabile laboratorio. Né stagioni diverse, né temporali, né caldi afosi, né altre contingenze lo trattengono: lo stakanovista del pasticciotto non può e non sa rimandare. Salvatore “Totò” Fracasso è già pronto per costruire, inventare, sfornare dolcezza. Immerso tra strutto, farina, zucchero, latte e tuorli d’uovo, si accinge ad incontrare le sue due geishe, la pasta frolla e la crema pasticcera. Chissà perché, ma sogno spesso le sue albe imburrate, friabilmente profumate di limone; cosi come incontro certi pomeriggi serenamente infarinati, accolgo i miei tramonti spennellati divinamente col bianco d’uovo, tutta opera di quest’uomo, sempre sorridente, sempre con quella spalla un po’ ricurva, ed unica (gli stampini dei suoi dolci riconoscono solo quella): so la sua età ma non la dico, perché cannoli, monachine e cassatine potrebbero aversene a male, visto che son già “golosamente” gelose di quel pasticciotto famoso e già vip che riconcilia con la vita. E con la calma di un quartiere che non sa rinunciare a continue trasgressioni alla dieta.

Qualche centinaio di metri più in centro, poi, opera uno specialissimo chirurgo, chino amorevolmente sulle sue pazienti; non riesco a non provare un certo sollievo ogni volta che lo vedo, come  fosse un ansiolitico naturale la sua presenza; non so stavolta quanti anni ha, potrei chiedere in giro, ma non mi interessa: lui è lì, nella sua bottega, piccolissima, odorosa di pelli e di perfezioni, quest’ ultime emanano un profumo inconfondibile e allo stesso tempo indefinibile; lui sta lì, in quello spazio angusto ma disvelatore di un mondo e di una vita vissuta lavorando: la dedizione è nel suo paio di occhiali, dolci come il suo viso, e nella concentrazione con cui usa il trancino o il martello. Antonio “Uccio” De Donno, l’ingegnere della tomaia, il (ri)educatore delle suole e dei battistrada: e in un  rapporto direttamente proporzionale tra il suo carattere apparente e le calzature che ripara, tanto più l’uomo è pacato d’animo, quasi schivo, tanto più forte e resistente sarà il contrafforte e la cambratura della scarpa. Tanto più impercettibile è il suo saluto, tanto più il puntale e il fiosso saranno modellati a dovere. Direttore di una originale orchestra, sa far suonare divinamente tenaglie e battispine, levachiodi e lesine, in un ensemble di movimenti mai scoordinati. E mai stranieri.

A pochi passi dal maestro artigiano, neanche a farlo apposta, lavora un altro uomo, stavolta non è questione di sapere quanti anni abbia o se interessi il dirlo e il saperlo: semplicemente credo che non abbia un’età Carmelo Morea, ma per tutti efficacemente solo Morea. Già nel fatto che si ricordi o si dica il cognome invece del nome per identificarlo, tanto è vero che molti giovani(ssimi) non sanno del nome Carmelo, risiede una sua eccezione: cos’è, di grazia, una cartoleria semplice? No, è “morea”. Cos’è, buon uomo allora, un’edicola sui generis? No,è “morea”. Vediamo un po’, allora, cos’è un avamposto di articoli da regalo e oggettistica varia? No(ne): è “morea”, e basta. E’ tutto questo e tutt’altro: l’implosione perpetua dell’utile quotidiano, il trionfo della densità commerciale, la quintessenza del caos organizzato, locuzione quest’ultima nella quale la parola più pregnante non è il sostantivo caos ma il participio passato (o aggettivo) “organizzato”: tu chiedi nel marasma di colori, carte, matite, giornali, in quei minuscoli e immensi pochi metri quadrati, tu ottieni nel giro di pochi minuti. Più che un’istituzione è un salvagente. Immobile, eppur si muove, con amore (vale morea).

Sarà, ma il paradiso talvolta me lo immagino cosi, simile a questi laboratori e botteghe, e cioè piccolo, per niente agorafobico, anzi barocco e pieno di oggetti e  chincaglierie varie. O meglio immagino tanti paradisi plurali  per cui per ogni artigiano e per ogni professione esiste un  paradiso diverso, tanto ristretto ma tanto pieno d’ossigeno e sospiri. Zeppo di strumenti pratici, ma privo di spiegazioni plausibili: perciò stupendo, no?

Ecco, potrà esser fatto di pizzi e merletti il paradiso di una  una donna che ho conosciuto  moltissimi anni fa. Ha avuto sette figli, tutti vicini a lei come i cuccioli di una mamma lupa, ad aspettare lei il marito, loro il papà tappezziere per le Ferrovie di Stato. Li accudiva lei, da sola, e per dar loro da mangiare, ricamava e cuciva. Cucinava, cuciva e ricamava. Spiegava, cucinava, cuciva e ricamava, maestra del Punto Venezia: il marito, sempre in giro a rammendare, lei a costruire ed inventare centrini e ornamenti per tende e tovaglie. La poesia era lì, nel risultato, in quei disegni trattati come figli (come se non ne avesse abbastanza), cercati e sempre trovati. Il suo nome non importa, é morta un po’ di tempo fa, ma continua a vivere in certi movimenti di ciglia, in certi sguardi curiosi di una delle sue sei figlie femmine… mia madre.

Il pasticcere, il calzolaio, Morea, la ricamatrice: quattro storie normali, di straordinaria ordinarietà, come tante altre a Maglie (negli esempi ci si può rispecchiare, e ci si può imbellettare l’anima); un’esistenza passata in silenzio, dietro le quinte, ma senza i compromessi dell’era moderna se non quelli fatti con la propria passione o  col tempo destinabile a coltivarla. Gente che non ha  avuto bisogno di luci intorno a sé, anzi non le ha mai volute, maglie ne ha già troppe di ostentate fosforescenze, alcune anche finte; quattro storie di vite comuni, uomini e donne che non hanno mai scodinzolato come tanti piccoli cagnolini bavosi dietro la richiesta di un favore al ricco o al potente di turno: non sono stati abituati a farlo, e poi forse non avrebbero avuto mai tempo per farlo, concentrati sempre sul proprio lavoro. La nostra città ha bisogno di gente come questa, più di quanto possa ammettere una persona come me, che dà (quasi) tutto per scontato, senza sporcarsi (quasi) mai le mani. Maglie così grazie a loro è più dolce e passionale e vitale: da  scoprire  piano piano, ricoprire di cacao e panna  e poi rivestire della miglior seta d’organza!


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