Firenze, Viper Club.
«Oh, ma hanno fatto prima Closer o Unknown Pleasures?» «No no, prima Closer, te lo dico io… ora vado a vedere su Wikipedia!».
Ecco cosa succede ad arrivare presto ai concerti: capita di sentire perle di questo genere e non spiegarsi il perché di tanta violenza. Avete presente la scena di Annie Hall in cui Woody Allen sta facendo la fila al cinema per Il dolore e la pietà e si ritrova dietro il tizio che straparla di Fellini e di Marshall McLuhan? Più o meno la situazione era quella. Infatti, a un certo punto, ho tirato fuori il fantasma di Ian Curtis dal pavimento del locale, che si è rivolto ai tizi, rimproverandoli con un bizzarro quanto improbabile accento fiorentino: «Dai, non eravamo mica Frank Zappa And The Mothers: sono due dischi, su! 1979, Unknown Pleasures e 1980 Closer. Che ci vorrà ad impararlo?».
Ragazzi… se la realtà fosse davvero così! E in effetti non è andata così manco per sbaglio: ho subìto tutto in silenzio; manifestando disappunto con qualche battutina inopportuna, come il buon appassionato di musica sa fare in determinate circostanze. Nel frattempo, al Viper di Firenze, aspettando Peter Hook e la sua band, si proiettava, purtroppo nella versione italiana, Control, pellicola di Anton Corbijn sui Joy Division, ma soprattutto sulla figura del loro leader. Inutile dire che la scelta del film serviva soprattutto a far sì che il locale si riempisse, e per permettere a chi – come me e tanti altri - lo stava rivedendo per l’ennesima volta di gustarsi appieno le pillole di saggezza, come quelle sopracitate, inanellate dal pubblico presente. Un pubblico in prevalenza vestito a lutto, come la Vera New Wave e il Vero Dark richiedono. Mai viste, in tutta onestà, così tante spolverine in vita mia, e forse nemmeno tante ragazze meravigliose rovinate da pettinature e make-up alquanto ridicoli. Senza contare che Firenze, per quanto concerne la new wave, ha avuto i suoi piccoli, grandi momenti di gloria, ed era dunque inevitabile il numeroso accorrere di vecchi e nuovi, ieratici ascoltatori.
Poco prima della fine del film, ecco che uno degli algidi se ne esce con: «Oh, ma alla fine è una tribute band». L’affermazione, al principio, mi ha lasciato un po’ spiazzato. Durante l’esibizione di Peter Hook and The Light, però, non ho potuto fare a meno di realizzare quanto, per lo meno in parte, il ragazzo avesse ragione.
Premetto che se c’è una cosa che odio sono le tribute band, di ogni forma e colore: non aggiungono niente al panorama musicale e in più tolgono spazio a chi vuole proporre materiale inedito. A questo punto, meglio un dj-set fatto come Dio comanda. Il punto è che qui non stiamo parlando di cinque bischeri che di punto in bianco hanno voluto riproporre in maniera pedissequa il repertorio dei Joy Division: parliamo di una band che ha come capo un signore che nella compagine di Manchester c’è stato sin dagli inizi, che ha preso parte alla scrittura dei brani e che ha contribuito, col proprio basso, a rendere unico il loro suono. È forse poco tutto questo? No. Peter Hook, insomma, non è di certo l’ultimo arrivato, ed è quindi impossibile che un’operazione come questa non desti la curiosità di chi, per motivi geografici e anagrafici, non ha potuto assistere al miracolo consumatosi negli anni tra il 1978 e il 1980. Ed ecco dunque spiegato il pubblico fiorentino, per forza di cose diviso tra curiosi, nostalgici e giovani fan dei Joy Division.
Messo da parte il momento cinematografico, pochi minuti – scanditi, tra le tante canzoni, da “Dirty Old Town” dei Pogues e da “Trans Europe Express” dei Kraftwerk – ci separano dall’entrata in scena di Peter Hook And The Light, che aprono il concerto con “Atmosphere”, brano che, tra l’altro, accompagna anche i titoli di coda di Control.
Hooky e i suoi (Jack Bates, Nat Wason, Paul Kehoe, Andy Poole; rispettivamente basso, chitarra, batteria e tastiere) paiono piuttosto in forma. La riproposizione di pezzi quali “No Love Lost”, “Leaders Of Men”, “Glass” e “Digital” non è una scimmiottatura, ma un sentito omaggio. Nonostante ciò, alcuni difetti vengono subito a galla: come sappiamo, Peter non verrà mai ricordato per la sua ugola d’oro, e i primi problemi di natura vocale sembrano già manifestarsi al terzo e al quarto brano. Per fortuna, nel momento in cui i cinque cominciano a suonare, tutti filati, i dieci episodi di Unknown Pleasures, la voce del nostro splendido cinquantaseienne ha una ripresa, e tutto procede nel migliore dei modi. L’esecuzione, senza sbavature e senza troppi fronzoli di sorta, è resa pure simpatica dalla presenza scenica di Peter (per certi versi, un sosia di Alvaro Vitali con la giusta panza), decisamente poco new wave: un’attitudine senza dubbio più consona ai New Order che ai Joy Division, d’impatto più rock–danzereccio e poco iancurtisiana. Bene così, in fondo.
Al primo bis, sopraggiunto subito dopo la fine di “I Remember Nothing”, il gruppo ritorna sul palco per eseguire “Heart And Soul”, “Isolation”, “Decades” e “Twenty Four Hours”: niente da sottolineare, se non il fatto che in molti avrebbero voluto sentire di più il basso à la Hook, piuttosto che le quattro corde del più giovane compagno di avventure Bates.
Protagoniste dell’ultima ondata di canzoni sono, invece, “These Days”, “The Drawback” e “Something Must Break”. Il trittico finale è invece dedicato ai salti, alle danze e ai richiami di stampo “pop”. Mi riferisco a “Transmission”, “Love Will There Us Apart” e a quel meraviglioso limbo tra Joy Division e New Order che è “Ceremony”, che chiude la serata tra i caldi entusiasmi del pubblico del Viper. Subito dopo il concerto, lo schermo propone l’ottimo 24 Hour Party People di Michael Winterbottom, il cui audio è purtroppo sovrastato dalla musica anni Ottanta del dj-set.
Arrivati alla fine, rimane poco altro da aggiungere: è stato un concerto senz’altro divertente, ben suonato e che ha lasciato il dovuto spazio alle emozioni. Peter Hook, come già scritto, non è un maestro nel cantare e purtroppo ha pizzicato poco le corde del suo basso, ma quando l’ha fatto non ha deluso le aspettative. Certo, uno come lui potrebbe anche imparare a cantare e suonare allo stesso tempo, non guasterebbe. La nota amara è che il ragazzo che parlava di «tribute band» non l’aveva fatta troppo fuori dal vaso; anche se con un componente storico, di questo si tratta: di un’ottima, commovente, tribute band.
Per una volta, comunque, è stato bello tapparsi il naso, in barba a tutte le convinzioni sull’argomento.
Un ringraziamento particolare va a Viola, Margherita e a Marco per aver fotografato il concerto dalle più disparate angolazioni. Dispiace solo aver usato un unico scatto della serata.
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