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Petrolio di sangue. Nessuno scordi Baghdad. I tentacoli della Gazprom sulla Crimea

Creato il 09 aprile 2015 da Retrò Online Magazine @retr_online

Reportage: “Tra le fauci dell’orso. Geopolitica e società di un’Ucraina divisa”

Il corridoio del gas. Russia e Occidente: fratelli-coltelli

Era il 2008 quando Viktor Yushenko e Julija Tymoshenko – guidati dal supporto degli alleati occidentali – sostennero la proposta di aumentare le tasse alla Russia per il transito del gas in territorio ucraino. Fu la risposta secca alla Gazprom – la più grande compagnia russa, con un fatturato di 153 miliardi di dollari nel 2012 – che intimò di riportare il prezzo del gas per l’Ucraina a livello di mercato. Il corridoio energetico del Paese diviso fra Kiev e il Donbass è da sempre stato il ponte fra l’Est europeo e l’Occidente, nonché il termine ultimo di una diatriba diplomatica internazionale che si risolse nel gennaio del 2009, quando fu decretata la scadenza del contratto che dettava i termini del transito di gas fra le due aree geografiche.

Fu allora che la Gazprom interruppe il flusso verso l’Europa occidentale. La decisione della Russia costrinse l’Occidente a degli interrogativi. La crisi ucraina non era più di portata nazionale. Varcava i confini di sempre e allungava i suoi tentacoli nell’Ovest europeo. Fu allora che l’Europa si interrogò su quali fossero i Paesi estranei all’ondata di crisi indotta dalla Russia di Putin. Chiudendo il rubinetto del gas, la Gazprom avrebbe procurato il collasso dell’economia europea.

E intanto Viktor Yushenko cadde. Cadde il suo governo. Una caduta rovinosa, ricevendo al primo turno delle elezioni presidenziali del gennaio 2010, a malapena il 5,45% dei voti. Arrivò quinto, decretando la vittoria di Viktor Yanukovich. La “rivoluzione arancione” implodeva in se stessa. La grande rivolta, sorta nel novembre 2004 sull’onda delle rivoluzioni colorate, si spegneva insieme a tutti i suoi ideali. Fu la vittoria “zoppa” dell’Europa occidentale. Quest’area del Vecchio continente avrebbe ricevuto ancora stabilmente il gas dalla Russia, mentre l’Ucraina avrebbe usufruito del 30% di sconto sulle forniture. Bruxelles era con le mani legate: nessuno poteva permettersi di confortare il grido di Kiev.

La prima guerra del Golfo. La svolta ermeneutica del petrolio

Gli anni ’80 furono il decennio di preparazione alla prima guerra del Golfo, che ha visto i riflettori puntati sul Medio Oriente dall’agosto 1990 al febbraio 1991. Gli anni di Reagan, di Gorbacev. Gli anni del negoziato fra Russia e Stati Uniti sulla riduzione dei missili strategici. Gli anni di Saddam Hussein e George H. W. Bush. È in questo preciso momento storico che la “real politik” si rende protagonista e timone dei rapporti e dei contrasti fra l’Iraq di Saddam e la coalizione di Stati Uniti e Occidente. E intanto l’Unione Sovietica soffiava dietro-le-quinte, così come il partito siriano-iracheno Ba’th si profilava come l’ostacolo insormontabile contro il propagarsi del regime islamico-iraniano.

Crimea

Il presidente George H. Bush incontra le truppe americane in Arabia Saudita
Photocredits: Severino666/Wiki/Public domain

La prima guerra del Golfo ha visto allora un’America sostenitrice del potere di Saddam, al quale forniva informazioni strategiche e militari per arrestare il fondamentalismo dell’Iran, quella stessa America che si gettò poi contro il regime iracheno, temendo l’avanzata del partito panarabo Ba’th. Ma dov’è il petrolio in tutto ciò? Dov’è quella svolta ermeneutica dell’oro nero?

La prima guerra del Golfo ha portato sotto gli occhi di tutti l’Arabia Saudita del sovrano Fahd e il Kuwait di Jabir III, i grandi pozzi e i petrol-dollari che si sarebbero dimostrati la benzina del mondo. Era il 2 agosto 1990, quando Saddam Hussein invase il vicino Kuwait, consapevole della ricchezza di petrolio di quel lembo di terra in cima al Golfo Persico. Voleva essere una prova di forza contro gli Stati Uniti, colpevoli di un’ambiguità politica lacerante, e in secondo luogo per rivendicare il territorio kuwaitiano come parte integrante della comunità irachena.

Il 23 gennaio dell’anno successivo, all’Iraq di Saddam fu mossa l’accusa di aver riversato in mare 400 milioni di galloni di petrolio, volendo ostacolare lo sbarco dei marines americani in territorio iracheno.

Finita da anni la prima guerra del Golfo, nel 1996 l’Onu introdusse il programma “Oil For Food”, permettendo all’Iraq di vendere petrolio ottenendo in cambio generi alimentari. Tra il gennaio 2002 e il marzo 2003, le maggiori compagnie petrolifere americane – volendo ridurre l’importanza strategica del rifornimento di greggio a Paesi come il Venezuela di Chavez – si schierarono a favore di uno sfruttamento sistematico delle riserve di petrolio dell’Iraq, con la previsione di abbassare in tal modo il prezzo del greggio. Ed è proprio allora che le proteste popolari in America e Regno Unito alzarono la voce, etichettando la seconda guerra del Golfo (2003-2011) come una reale “guerra del petrolio”.

Crimea: scacco matto all’Ucraina!

Il referendum del marzo 2014 in Crimea è il giro di boa per comprendere appieno i giochi di potere dispiegati in quel “lenzuolo di terra”. L’annessione dell’Est ucraino alla Russia non è a malapena un traguardo politico per l’ex Unione Sovietica. È uno “scacco” strategico e geopolitico sul Mar Nero. Significa innanzitutto allargare il potere sulle risorse sottomarine, capitalizzando miliardi di dollari.

La lotta fra governativi e separatisti, fra Kiev e Mosca, non è altro che la punta dell’iceberg di una piovra che vede nell’annessione della Crimea un’ennesima spinta economica. Le mani del Cremlino sono là dove zampilla il petrolio, dove il gas è una riserva, e dove l’energia può mettere a tacere il grido indipendentista dei manifestanti di Piazza Maidan.

I comunicati da Mosca smentiscono la connessione fra l’ideale di una Crimea annessa alla Russia e l’intenzione di sfruttare le riserve petrolifere nel Mar Nero. Fu lo stesso portavoce del presidente russo Putin, Dmitry Peskov, ad affermarlo il 17 maggio 2014: “Rispetto a tutto il potenziale che la Russia ha in suo possesso, non vi è alcun interesse per quell’area”. Ma le parole di Peskov stridono con la realtà economica di fatto. Acquisendo la Crimea mediante il referendum, la Russia si sarebbe trovata nel diritto di estendere ulteriormente i confini politici lungo quell’area geografica. Ai 26mila chilometri quadrati già in suo possesso, ne avrebbe ottenuti altri 36mila, intimando un’autentica egemonia sul territorio. Allo stesso tempo il gasdotto South Stream avrebbe subito una vantaggiosa variazione di percorso, correndo ora direttamente sul Mar Nero rifornendo più agevolmente l’Europa.

La battuta d’arresto nelle mire espansionistiche della Russia di Putin, o forse soltanto la risposta secca dell’Unione Europea al Cremlino, sono state le sanzioni per l’invasione della Crimea. Un colpo d’acceleratore negli accordi commerciali fra la l’impero del Nord e la Cina. La spinta verso un nuovo orientamento del baricentro geopolitico internazionale.

Il 20 e il 21 maggio dello scorso anno, Vladimir Putin e Xi Jinping, presidente della Repubblica Popolare Cinese, hanno siglato l’accordo che frutterà a questi due Paesi ben 400 miliardi di dollari nei prossimi trent’anni. E il fulcro dell’accordo è stato proprio il gas: da una parte la Gazprom – la compagnia russa che rifornisce l’Unione Europea per il 25% del

energetico – e la China National Petroleum Corporation, fondata a Pechino nel 1983 con un fatturato di 110.520 miliardi di dollari nel 2006. L’accordo ha così garantito il rifornimento di gas russo alla Cina per un totale di 38 miliardi di metri cubi annui dal 2018.

A chi importano, dunque, le identità nazionali? Qual è l’effettivo valore del petrolio? Si calcola in dollari o col prezzo delle vite umane? Forse la sola risposta che ancora rimane, è la supremazia indiscussa delle dinamiche economiche globali, dell’egemonia politica sulle affermazioni dei singoli.

Tags:#Donetsk,#Yanukovich,America,baghdad,Bush,cremlino,kiev,Mosca,putin,russia,ucraina

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