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Philipp Meyer

Creato il 26 gennaio 2011 da Sulromanzo

Ruggine Americana di Philipp MeyerRuggine Americana (American Rust) è uscito negli Stati Uniti nel 2009. In Italia è stato pubblicato a Settembre del 2010 da Einaudi, con traduzione di Cristiana Mennella. Io avevo letto alcuni articoli sull'opera prima di Philipp Meyer; qualche critico che era rimasto freddo, qualche altro che aveva gridato al capolavoro. Luca Malvasi lo ha giudicato tanto, troppo cinematografico, forse «mai letto», ma sicuramente «già visto». Aspettando l'adattamento di Walter Salles per il grande schermo ho letto il libro. Nel frattempo la stampa italiana ha iniziato a paragonarlo ad Acciaio di Silvia Avallone, paragone peraltro pertinente. L'acciaio arrugginisce, gli stabilimenti si smantellano e la solita gente intrappolata nella società osserva, arranca e soccombe. Sergio Pent, dopo aver accostato in un articolo le due opere d'esordio, invita a leggere Ruggine Americana, implora di leggerlo. Come non condividere l'invito.

 

Ruggine americana è stato nominato miglior libro del 2009 dal "New York Times", dal "Los Angeles Times" e dall'"Economist" ed è stato inserito dal "Newsweek" nella lista dei "Best Books ever". Philipp Meyer è nella lista del "New Yorker", tra i migliori venti scrittori under 40. Se la bellezza di un libro si potesse oggettivamente quantificare in cifre, tutto questo dovrebbe bastare. Ma la grandezza di un libro è una faccenda troppo seria per lasciarla ai numeri. Dentro un buon libro ci sono sempre altri libri e dietro un buon autore ci sono altri autori. Dietro i personaggi ci sono pezzi di vita e di società, catastrofi e sogni spezzati.

 

Dentro Ruggine Americana ci sono i film di Larry Clark e Gus Van Sant, ci sono James Joyce, Hemingway, McCarthy, Salinger, Steinbeck, c'è una parte di America ferita ed abbandonata, lasciata a marcire ai margini del grande sogno infranto. Ci sono Isaac English, Billy Poe, Harris, Lee, Grace, personaggi scolpiti nell'acciaio che si portano dietro il dramma del loro piccolo passato. C'è la tragedia, il thriller, il noir. C'è un racconto e ci sono tanti racconti, c'è una storia e ci sono tutte le storie. C'è un autore nato a New York e vissuto a Baltimora che, mentre aspettava di diventare uno scrittore, ha lavorato in banca, nell'edilizia, in un centro traumatologico, ha fallito, è caduto e si è sempre rialzato. C'è lo spazio sterminato dell'America dei grandi laghi. C'è Buell, un tempo ridente cittadina industriale ed ora ammasso di case degradate e senz'anima che non lascia più scampo; fuggire o morire.

 

La trama esplode immediatamente, come in un buon copione cinematografico. Dopo la prima dissolvenza siamo già immersi nel main plot; la fuga di Isaac, la paura di Poe, l'omicidio, l'ostacolo. Ma dalla trama principale se ne dipanano altre, innumerevoli, che tornano indietro nel tempo e ci raccontano dei nostri personaggi. Le prime due sezioni, delle sei di cui è composto il libro, sono bellissime, al limite della perfezione. Belle da far commuovere. Essenziali, limate da un lungo lavoro di revisione e rilettura, veloci e dinamiche, intense, cinematografiche nel senso migliore del termine. Poi, la brillantezza si offusca un po', la trama si attorciglia appena su se stessa, fatica leggermente per trovare un proseguo ed uno sbocco, ma Meyer sa condurla con pazienza fino alla fine. Sono pagine dense e pienissime. Piccoli capitoli in soggettiva in cui lo sguardo è sempre di uno solo dei cinque personaggi principali. Vicende parallele che si toccano e si allontanano, ma che alla fine sono collegate tra loro. Uomini che vivono la loro tragedia, immersi in una sorta di indiretto libero sempre efficace, che mischia insieme azioni, parole e pensieri; cinematografico laddove può permettersi di essere cinematografico, narrativo laddove ha bisogno di essere narrativo.

 

Ed alla fine arriviamo al nostro happy ending, alla fine il thriller trova il suo epilogo. Ma sotto questa tragedia mancata se ne nasconde una più grande. È la tragedia di quella ruggine che sta divorando ogni cosa. La tragedia silenziosa di una società impotente di fronte alla sua stessa deriva. La morte, il suicidio, l'amicizia, l'amore; dentro quella ruggine e quel silenzio ogni cosa diventa esiziale, fulminante, disperata, immediata, senza speranza. In mezzo a quella ruggine qualcosa è già morto, un pezzo d'America se n'è andato, trascinando i suoi abitanti. Una tragedia è sventata, le altre rimangono lì, troppo grandi per essere cancellate; c'erano prima che iniziasse la nostra storia e rimarranno quando questa sarà finita. Tragedie di cui il maestro russo Anton Checov andrebbe fiero. Perché, secondo lui, le tragedie sono finte e la vita è vera. Nella vita non c'è nessuno che si strappa i capelli per strada ed urla a squarciagola. Ognuno trascina il suo fardello in silenzio, sopporta e va avanti. Così è per Meyer, così è in Ruggine Americana. Il senso di tragedia ci sovrasta, non possiamo fare altro che abituarci e rassegnarci. Del resto l'autore, a metà del libro, ci ha già avvertiti: «Sarà sempre peggio amico mio. Le buone azioni non restano impunite».

Aspettando il film di Walter Salles, buona lettura.


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