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Parlare di malattie, al cinema, non è mai cosa facile.
Si rischia di cadere presto nel patetico, nel drammone strappalacrime che mira più ad arruffianarsi il pubblico che a informarlo o a intrattenerlo a dovere con un equilibrio tra realtà e finzione.
Gli ultimi anni sono stati segnati principalmente dalla tendenza a parlare di queste malattie con un tono leggero ma non frivolo, attraverso la commedia e soluzioni di sceneggiatura innovative (vedi 50e50, L'amore che resta, The Big C in TV).
Quando si parla di malattie infantili, il problema è ancora più pressante, visti i protagonisti, ma non mancano casi che hanno saputo intelligentemente raccontare tutte le conseguenze e le paure in atto (vedi La guerra è dichiarata, Alabama Monroe).
Come si pone, invece, e cosa c'entra, Phoebe in Wonderland con tutta questa premessa?
Il film di Daniel Barnz non racconta, è bene dirlo visti gli esempi proposti, di una malattia mortale e bastarda come il cancro.
Phoebe sembra apparentemente una bambina come tante, forse un po' più speciale delle altre, immersa in un suo mondo fantasioso, in sue strane fissazioni che ruotano all'improvviso tutto attorno ad Alice nel Paese delle Meraviglie, spettacolo che si sta per allestire nella scuola e a cui lei vorrebbe tanto partecipare.
Le tensioni e le ansie che il provino prima, e la scritturazione poi come protagonista, le causano accentuano ancor più il suo comportamento fatto di tic incontrollabili e riti scaramantici a cui non si può sottrarre, e che minano il rapporto con la madre (una remissiva Felicity Huffman) che non la sa capire, con la sorella che ne capisce in parte la "specialità" e con i compagni di scuola.
Fortunatamente, nel suo cammino incontra l'insegnante Dodger che ne intuisce subito le potenzialità e la diversità, l'amico solidale Jamie, e uno psicologo, che pur individuando la sindrome che la colpisce, dovrà scontrarsi con una madre impreparata ad affrontarla e ad accettarla.
Phoebe in Wonderland vorrebbe così essere un film di informazione, da un lato, e di intrattenimento dall'altro, avvalendosi dello stile Sundance in cui è stato presentato.
Mischiando realtà a finzione, con i personaggi di Carroll che interagiscono con la protagonista, sembra però non approfondire a dovere molte delle tematiche coinvolte: il rapporto madre-figlia, il rapporto tra i genitori o con la sorella che vengono toccati, sì, ma sviscerati in urla di litigio che li fanno rimanere sullo sfondo.
La stessa malattia, per quanto ben presentata, non trova in Elle Fanning un'attrice in grado di interpretarla a dovere, cogliendo tutte le difficoltà del caso e la sua innaturalezza nel doverle proporle.
Tutto sommato, quindi, il film di Barnz riesce in parte nel suo compito, incagliandosi in sfizi di stile che appesantiscono una sceneggiatura che avrebbe potuto essere più frizzante, e quindi più ammirevole.
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