Anna Lombroso per il Simplicissimus
“Pianto greco”. Non è solo sgradevole il titolo messo in cima, da Huffigton Post, alla foto della musicista dell’orchestra nazionale in lacrime, sgradevole della sgradevolezza che ha il disincanto spregiudicato e cinico, il pragmatismo di chi condanna emozioni e passioni, come se fosse ragionevole ed auspicabile diventarne immuni, riconoscere il primato del realismo sulla speranza e della concretezza sull’utopia.
Si comincia così e si accusa di moralismo chi vuole rinsaldare la legalità, si comincia così e si condanna come sognatore chi è convinto che ci possa essere un’alternativa all’egemonia dello sfruttamento, si comincia così e si irride come visionario o peggio disfattista, chi non vuole cedere alla legge autoritaria dell’ineluttabilità del profitto e alla implacabilità dello stato di necessità.
Non è solo sgradevole, non è solo inutilmente squallido quel titolo ”Pianto greco”, che evoca lagnose recriminazioni, lacrime sul latte versato, per non dire dei tardivi lucciconi del coccodrillo per via della lenta digestione, dopo essersi dedicato a pasti eccessivi, a riprovevoli scorpacciate, a dissipati e dissennati consumi.
Perché dietro a quel “pianto greco” c’è la derisione per un popolo che adesso paga per aver vissuto al di sopra delle possibilità, di aver dimostrato indulgenza per costumi licenziosi, per corruzione e clientelismo, che sconta l’acquiescenza a governi inetti, incompetenti, depravati. E che ha la colpa di non piangere solo per i suoi bambini affamati o per malati che non possono avere le medicine delle quali hanno bisogno, ma per la sua televisione pubblica e per la sua orchestra, come dei maledetti sentimentali, retorici e irragionevoli.
Se lo meritano, è il messaggio che sta dietro a quel “Pianto greco”.
Invece pare che noi ci meritiamo Huffington Post, testimone di un’informazione assoggettata e svenduta che dà credito invece alle lacrime della Fornero, che sorride delle sue battute inopportune su un popolo che va messo in riga altrimenti sta tutto il giorno a poltrire aspettando l’ora della pasta pummarola n’goppa, che accredita la retorica bi partisan di italiani mammoni, bambini da trattare a bastone e carota, infingardi e indifferenti ai fasti della concorrenza e della libera iniziativa, sfigati e provinciali.
Ci meritiamo un ceto dirigente che ci tratta non da cittadini, ma da subalterni, per prepararci a un lavoro servile, espropriato di garanzie e dignità, elargito anche nelle sue modalità più informali e precarie, come una donazione da conquistarsi con l’ubbidienza e la fedeltà, e a una cittadinanza mutilata di sovranità e diritti, perché vogliono forgiarci a loro immagine e somiglianza, arresi ai padroni interni ed esterni, soggetti ai diktat di chi li dirige e a quelli della conservazione dei loro privilegi.
Ci meritiamo un’esistenza dedita solo alla sopravvivenza, senza speranze, senza futuro, senza desideri e senza bellezza, diventata come la musica, la conoscenza, l’arte, attrezzi arcaici ai quali è possibile, realistico e ragionevole saper rinunciare o rinviare a improbabili tempi migliori.
Sarà perché ci vogliono come loro, che disprezzano la cultura che non puoi mettere tra due fette di pane, che l’informazione la condizionano grazie a sostegni arbitrari e ricattatori o all’ammissione ai retroscena che conquistano chi vuole almeno annusare il profumo del potere e dei soldi. Ci vogliono come loro che trattano il diritto alla città e alla qualità dell’ambiente come un problema di ordine pubblico, per zittire chi reclama la proprietà inalienabile dei beni comuni per la cittadinanza, nessuno escluso. Ci vogliono come loro che sono rassicurati dalla condizione di servizievoli esecutori immunizzati all’interesse generale, alla poesia delle parole e della musica, alla curiosità di conoscere e sapere perché creano consapevolezza e risvegliano l’istinto alla libertà.
Se è così, vorrei un pianto italiano, insieme a quello greco e a quello turco, il pianto di chi conosce e sa vivere la passione felice o triste che sia per la dignità e la libertà.