Anna Lombroso per il Simplicissimus
E ci risiamo, con l’effetto sorpresa, con la scoperta dell’acqua tiepida, perché hanno paura delle scottature di quella calda, con le stupefatte escursioni nell’angusto mondo di noi comuni mortali da parte di rappresentanti eletti o di “eletti” prescelti per osservarci e illuminarci quando scendono dalle loro distanze siderali e dalle loro auguste distanze.
Stavolta tocca a Saviano al quale, dopo aver scoperto, appunto dagli Usa, che la cocaina è un brando che con fiumi di liquidità permette alla criminalità organizzata di aggiudicarsi a basso prezzo ingenti porzioni di economia “sana”, comprandosi imprese sofferenti, istituzioni finanziarie, si è rivelato che la corruzione sembra essere una componente ormai irrinunciabile dell’autobiografia nazionale, in tutte le sue declinazioni, nelle istituzioni, nell’economia, nella politica, nelle università, nella pubblica amministrazione, ma anche nelle sue espressioni “di scala”, attraverso le forme del familismo anticamera del clientelismo, a più di mezzo secolo da Banfield, esasperato proprio, come sempre accade in economie arretrare e in fasi regressive, da una crisi che incrementa precarietà e incertezze, rendendo tollerabile se non desiderabile e comunque obbligatorio il ricorso a scorciatoie, licenze, addomesticamento tramite mancette e favori scambievoli di regole e leggi, procedure e controlli.
E secondo Saviano, ma se è per quello anche secondo una delle massime esperte dei temi della corruzione, la Della Porta, siamo diversi dagli altri paesi dove si manifesta contro le politiche di austerità, ma anche contro le disuguaglianze innescate dal sopravvento di pratiche amorali. “Nei paesi in cui si manifesta, eliminata la corruzione – posto che si riesca a farlo – c’è un’infinita ricchezza da gestire. Nel nostro paese, tolta la corruzione, il rischio è che non ci sia niente che possa sostituire quel sistema di mediazione. La corruzione qui da noi è avvertita, incredibilmente, come necessaria”.
Mentre altrove, sostiene Saviano, la lotta alla corruzione rappresenta una possibilità di trasformazione, in Italia si teme che debellando quella non resterà nessuna altra risorsa.
Per carità, non sono tra quelli convinti che da una parte ci siano poteri opachi, partiti sleali, ceti dirigenti asociali e immorali, cricche oscure, mentre dall’altra ci sarebbe una società “civile”, virtuosa, onesta, innocente. Ma per gli italiani – come d’altra parte per i greci, per gli spagnoli, per i turchi, per i portoghesi, quelli cioè segnati da una solida tradizione di quella combinazione di autoritarismo dispotico, dittature più o meno confessionali e decomposizione di principi costituzionali, libertà, diritti, alterazione delle relazioni tra economia e istituzioni – ci sono delle attenuanti: in alcuni Paesi la corruzione è diventata sistema di governo e viene mantenuta come componente irrinunciabile e funzionale al mantenimento di quegli equilibri che garantiscono che i ricchi, poveri, siano sempre più ricchi grazie ai poveri, molti, sempre più poveri, che i diritti vengano cancellati per permettere che le leggi che regolano il lavoro siano sempre più arbitrarie e discrezionali, che i privilegi dei rappresentanti eletti siano superiori ai bisogni degli elettori e così gli interessi privati rispetto a quelli generali. L’antipolitica è un’invenzione dei cattivi governi, di una classe dirigente infedele alla sua missione di guida, di èlite inadeguate e incompetenti, di alleanze opache e scellerate, della convergenza di attitudini e interessi di potenze variamente criminali, che unicamente in nome del profitto e dell’appagamento dell’avidità più inesauribile e rapace, hanno annichilito la sovranità degli stati e dei popoli, abbrutito ambiente, bellezza e cultura, vedi mai che si ispiri a loro chi vuole libertà e autodeterminazione, eroso democrazia e principi costituzionali, conducendo guerre convenzionali chi mandole paradossalmente umanitarie e guerre di classe sempre più implacabili.
La trasformazione dell’illegalità in sistema di governo, l’edificio di vizi liberalizzati, licenze, condoni, scudi e leggi ad personam mutato in impalcatura a sostegno di una plutocrazia, spiegano come nessun governo abbia mai voluto mettere in campo misure di contrasto della corruzione, come i media preferiscano informare su folklore delle ruberie più di quanto rubino dalle nostre tasche, tramite incremento del debito, alienazione dei beni comuni, penalizzazione della concorrenza leale, come regole e leggi vengano disinvoltamente assimilate a fastidiosi lacci e laccioli ostacolo della libera iniziativa,. E come ogni forma critica e di opposizione venga tacciata di spregevole disfattismo, così come ogni repressione di diritti, ogni cancellazione di garanzie, vengano prescritte come ricette ineluttabili e ineludibili, che ogni alternativa suona come patetica e irrealistica utopia, disdicevole in tempi di cruda necessità.
Saviano come quel che resta dei partiti è legato a una concezione di “espressione popolare” parziale e selettiva, che non considerando quelle sfere di partecipazione non strutturate in associazioni o sindacati, quelle che hanno contribuito a criticare e contrastare molte decisioni politiche degli ultimi anni — denunciando, prima, le continuità delle politiche dei governi Berlusconi rispetto a quelle del governo Prodi, del governo Monti e ora del governo Letta, quelle sulla scuola e l’università, sul precariato, su privatizzazioni e liberalizzazioni, sulla costruzione della Tav in Val di Susa e l’ampliamento dell’aeroporto militare Dal Molin a Vicenza che testimoniano di queste continuità trasversali, dai governi di centro-destra a quelli di centro-sinistra e viceversa, fino alle politiche dell’ultimo governo di grande coalizione.
È più facile non testimoniare dei tetti occupati, delle valli apline, dei canali, dei due lati di uno stretto, di siti per inceneritori, delle proteste di medici, infermieri, pastori, operai, minatori, precari tra altri diversamente flessibili, altrimenti si dovrebbe ammettere la perdita di autorevolezza, oltre che di contatto, con la scontentezza, con il malessere ma anche con il pensiero comune di un popolo che non riconosce più una leadership in quelli che vorrebbero farsi profeti. È più facile imputare le piazze vuote alla disaffezione, al disincanto della democrazia, al disamore della partecipazione piuttosto che spiegarne le cause, ammettere le colpe di opinionisti, guru, maestri auto legittimati e autoreferenziali, piuttosto che accusarne l’assoggettamento ai poteri e politiche che hanno favorito l’isolamento, la dispersione sociale, la diffidenza, l’insicurezza che mina la coesione sociale e la solidarietà e fortifica invece l’inimicizia. La retorica della bruttezza senza responsabilità, del presente senza domani, del rifiuto della speranza come fosse un lusso che non ci possiamo più permettere, pesa come una condanna a nuove schiavitù. E forse dobbiamo ritrovare le piazze dentro di noi.