di Stefano Mentana
Il 12 dicembre 1969, quarantacinque anni fa, all’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana, a Milano, esplose una bomba che uccise 17 persone e ne ferì 88.
Nelle ore successive, venne ritrovata un’altra bomba in una banca di Milano, poi ne esplosero altre tre a Roma, una in via Veneto, una all’altare della Patria e una terza al museo del Risorgimento, che ferirono complessivamente 17 persone.
I primi sospetti riguardo gli autori dell’attentato ricaddero su alcuni gruppi anarchici, di cui furono fermati diversi esponenti. Tra questi vi fu Giuseppe Pinelli, morto in circostanze misteriose il 15 dicembre dello stesso anno precipitando dal quarto piano della questura di Milano. Per questo fatto, numerosi gruppi di estrema sinistra ritennero responsabile il commissario Luigi Calabresi, ucciso nel 1972. In seguito a un processo, alcuni esponenti di Lotta Continua sono stati condannati per questo omicidio.
Per la strage di piazza Fontana fu inizialmente accusato l’anarchico Pietro Valpreda che, dopo essere stato processato, fu assolto.
Le indagini si sono poi spostate sui neofascisti Franco Freda e Giovanni Ventura, accusati anche loro, insieme ad altri esponenti del gruppo politico di Ordine Nuovo, di aver compiuto la strage dopo l’assoluzione di Valpreda. Gli imputati di questo gruppo, però, sono anch’essi stati assolti o le loro condanne sono cadute in prescrizione.
Oggi, a 45 anni dalla strage, dopo ben sette processi, non è stata individuata alcuna verità. Un’assenza di verdetto che ha favorito le interpretazioni che vedono in piazza Fontana l’inizio, o quantomeno una brusca accelerazione, della cosiddetta strategia della tensione: un tentativo di aumentare lo scontro politico attraverso gruppi eversivi in modo da poter inasprire le politiche repressive nel Paese.
Fonte: The Post Internazionale