Su Mario e il Mago (1930) di Thomas Mann è stato detto tutto e il contrario di tutto. Osannato da chi, giustamente, lo ha letto come un romanzo antifascista, criticato da chi vide nello scrittore tedesco la volontà di mettere alla berlina l’Italia del periodo.
Prima ancora che attraverso un’ottica ideologica, però, Mario e il Mago va letto per quello che è, ossia un romanzo biografico, una fotografia di Forte dei Marmi del 1925 e di conseguenza un documento storico sulla cultura fascista e popolare dell’epoca.
Se sostituiamo il nome Torre di Venere con Forte dei Marmi, il resto è esattamente quello che qualsiasi turista poteva vedere in quel periodo: la mondanità, il caos, le pensioni modeste, quelle pensioni di lusso, i proprietari e affittuari di ville, il business del turismo, il brulichio di bagnanti, le pinete sul mare, i pattini, le madri in apprensione in riva al mare a controllare i ragazzi in acqua , i venditori ambulanti dall’accento meridionale di ostriche, di bibite, di fiori, di coralli, il caffè-giardino, le Fiat rombanti su e giù per il viale a mare e il polverone da queste sollevato, la superiorità numerica delle lingue straniere, francese, tedesco, inglese, su quelle locali e sopra tutto, maestoso, il tempio dei tempi, il Grand Hotel, dove davvero Mann soggiornò ed ebbe lo spiacevole inconveniente di doversi allontanare a causa delle proteste di una nobildonna, impaurita dal pericolo che la tosse canina – ormai guarita – del figlio Michele potesse contagiare altri figli del lussuoso albergo.
Ed è questo episodio che si presenta il fascismo, un’esperienza che Mann riporta con queste parole: «…confesso che mi riesce difficile prendere alla leggera simili scontri con la comune umanità, con il rozzo abuso di forza, ingiustizia, corruzione strisciante».
E ancora «L’atmosfera mancava, per così dire, di innocenza, di semplicità: il pubblico stava “sulle sue”; sulle prime, non si capiva bene perché e percome, ostentava dignità, manifestava gravità e contegnosità sia nel proprio ambito, sia nei rapporti con gli stranieri, vigilava attento su un inalberato sentimento del proprio onore. Perché mai? Presto capimmo trattarsi di politica, essere in gioco l’idea di nazione. E in realtà la spiaggia brulicava di di bimbi patrioti, fenomeno innaturale e avvilente [...] si trattava di gente, spiegammo, che attraversava una specie di malattia non piacevole ma inevitabile.»
Poco dopo Mann coglie un altro aspetto rimasto vivo nella moralità versiliese: il buoncostume, la paura del corpo, l’offesa al pudore, genesi di una ideologia che aveva intuito (e Mann lo scrive) che la libertà dei costumi e del corpo è un pericolo in quanto libertà di espressione… [leggi tutto su apuan.it]
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