L’immagine presa dalla missione IRISdella NASA alla lunghezza d’onda di 1400 Angstrom mostra punti luminosi prodotti da plasma intorno ai 100.000 kelvin ai piedi di archi coronali caldi. Ogni pixel dell’immagine corrisponde a circa 120 km sulla superficie del Sole. Lungo la riga nera verticale sono stati ricavati spettri che mostrano l’evidenza di elettroni ad alta energia
Perché la corona solare è più calda della superficie, arrivando a registrare temperature di alcuni milioni di Kelvin, mentre sulla fotosfera non si arriva a 6.000? La domanda per decenni è rimasta senza risposte certe. Risposte che oggi arrivano dal lavoro pubblicato sulla rivista Science realizzato da un gruppo di ricercatori guidato dalla ricercatrice italiana Paola Testa dello Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics e a cui ha partecipato anche Fabio Reale, dell’Università di Palermo e associato INAF. Il loro studio, basato sui dati raccolti dalla missione Interface Region Imaging Spectrograph (IRIS) della NASA, indica che potrebbero essere piccole esplosioni chiamate “nanoflare” e gli elettroni veloci da esse prodotte la sorgente che fornisce calore alla corona, almeno per quelle regioni dove si registrano le temperature più elevate.
Un brillamento (flare) solare si verifica quando una piccola regione solare si illumina in modo marcato a tutte le lunghezze d’onda della luce. Durante i brillamenti il plasma solare viene scaldato a decine di milioni di gradi nel giro di secondi o tutt’al più alcuni minuti. Contemporaneamente, fasci di elettroni possono venire accelerati a velocità prossime a quelle della luce. Queste particelle sono tra quelle che, quando giungono sulla Terra a seguito delle eruzioni solari, innescano le aurore o creano problemi alle comunicazioni satellitari e i segnali GPS. Questi elettroni veloci possono essere generati anche da esplosioni su scala più piccola, i nanoflare appunto, circa un miliardo di volte meno energetici dei brillamenti veri e propri. «Su questa scala diventa molto difficile individuare i nanoflare e tantomeno gli elettroni che ne sarebbero un tracciante molto importante» dice Fabio Reale.
Indizi della presenza di questi mini brillamenti sono stati tuttavia individuati dai ricercatori analizzando le osservazioni di IRIS condotte nelle zone alla base degli archi coronali. Gli archi coronali sono tubi magnetici arcuati ancorati alla superficie solare in cui è confinato plasma caldo, luminoso nelle bande della radiazione X e dell’estremo ultravioletto. La strumentazione di IRIS non riesce ad osservare il plasma più caldo, che può raggiungere temperature di parecchi milioni di gradi, ma è progettato per studiare quello che ha valori compresi tra 10.000 e 100.000 gradi, condizioni che si verificano proprio ai piedi degli archi di plasma. Anche se non può osservare gli impulsi di calore direttamente, IRIS ne rivela le tracce come piccoli e brevi aumenti di luminosità.
Il gruppo ha dedotto in quelle zone la presenza degli elettroni ad alta energia usando simulazioni numeriche per spiegare le accurate osservazioni spettroscopiche e le dettagliate immagini ottenute da IRIS alla base degli archi. Le simulazioni hanno mostrato che quanto osservato può essere spiegato bene se si considera che l’energia in questi eventi venga trasmessa dagli elettroni di alta energia.
La scoperta degli elettroni ad alta energia non prodotti dai brillamenti ‘standard’ suggerisce che la corona solare sia, almeno in parte, riscaldata dai nanoflare. Le nuove osservazioni, supportate dalle simulazioni dei modelli teorici aiutano gli astronomi anche a capire come gli elettroni siano accelerati a queste energie e velocità, un processo che gioca un ruolo importante in un’ampia varietà di fenomeni astrofisici, dai raggi cosmici ai resti di supernova. In più, questi risultati indicano che le piccole esplosioni che avvengono nell’atmosfera solare sono efficientissimi acceleratori naturali di particelle, viste le energie in gioco in questi eventi, molto minori di quelle che si generano in occasione dei brillamenti.
«La ricerca di elettroni energetici su questa scala così limitata finora non aveva prodotto risultati. Questo lavoro mostra che popolazioni di tali particelle potrebbero essere molto più frequenti e comuni di quanto si ritenesse e stimola nuovo interesse e nuove domande in questa direzione» aggiunge Reale.
Fonte: Media INAF | Scritto da Marco Galliani