Dettaglio della galassia nana più massiccia che è stata analizzata nella simulazione condotta da Wise e colleghi, all’epoca in cui l’universo aveva solo 700 milioni di anni. La massa di questa galassia è di appena 3 milioni di volte quella del Sole. Un valore molto piccolo se confrontato a quello della Via Lattea, che raggiunge i 60 miliardi di masse solari. I punti gialli rappresentano le stelle più antiche e fredde, mentre quelli blu gli astri più giovani e massicci. La nebbia che circonda le stelle indica la distribuzione del gas, dove il suo colore, rosso e blu indica, rispettivamente, temperature alte e basse. Crediti: John Wise
C’è un periodo della storia dell’universo di cui praticamente non sappiamo nulla. Una ‘età buia’ che, tra circa 400.000 anni e quasi un miliardo di anni dopo il Big Bang, non ci restituisce -almeno nelle onde elettromagnetiche – alcun segnale, alcuna traccia di quello che è avvenuto. Il responsabile di questo black out è l’idrogeno neutro che, condensandosi, ha dato origine alle prime stelle che si sono accese nell’universo. E proprio queste stelle, soprattutto le più grandi, hanno avuto un ruolo decisivo per ionizzare nuovamente l’idrogeno, rendendo con la loro intensa radiazione ultravioletta finalmente ‘trasparente’ l’universo. Gli astronomi sono concordi nel ritenere che questo processo, detto appunto reionizzazione, avrebbe preso il via più o meno 200 milioni di anni dopo il Big Bang, per completarsi circa 800 milioni di anni dopo.
Il punto sul quale però ancora si dibatte ancora è quali galassie primordiali abbiano svolto il ruolo predominante nel processo di reionizzaizone. La maggioranza degli specialisti ritiene che il merito vada attribuito alle grandi galassie. Un nuovo studio, basato su simulazioni al computer e condotto da ricercatori del Georgia Institute of Technology e del San Diego Supercomputer Center, entrambi negli Stati Uniti, va controcorrente e indica che il grosso del lavoro di reionizzazione sarebbe stato svolto, al contrario, dalle galassie più piccole. Questi agglomerati di stelle – con una massa 1.000 volte inferiore alla Via Lattea ed estese trenta volte meno di essa – hanno fornito quasi un terzo 30 per cento della radiazione ultravioletta (UV) necessaria a completare il processo.
“Dal nostro studio emerge che queste galassie nane di fatto hanno formato nuove stelle, tipicamente in un’unica ondata, circa 500 milioni di anni dopo il Big Bang” spiega John Wise, del Georgia Institute of Technology, che ha condotto lo studio pubblicato sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society. “Le galassie erano piccole, ma così numerose che hanno comunque fornito una frazione significativa di luce ultravioletta nel processo di reionizzazione su scala globale”.
Le simulazioni hanno ricostruito il flusso della radiazione UV emessa dalle stelle nelle galassie primordiali, indicando che la frazione di fotoni ionizzanti diffusi nello spazio intergalattico è stata del 50 per cento nelle galassie di taglia ridotta (più di 10 milioni di masse solari), mentre per le galassie più massive (300 milioni di masse solari) si è fermato solo al 5 per cento. L’elevata frazione di fotoni ionizzanti sfuggiti alle piccole galassie, combinata con la loro abbondanza, spiega il motivo per cui le galassie più deboli sembrerebbero acquistare il ruolo predominante nella reionizzazione dell’universo.
Ricostruzione tridimensionale di una porzione di universo in cui è visibile la progressiva reionizzazione dell’idrogeno. Le regioni in blu indicano le porzioni di gas riscaldato e ionizzato attorno alle galassie. Queste crescono al crescere delle galassie, per poi fondersi insieme, indice del completamento del processo. Il cubo ha uno spigolo di 200 milioni di anni luce. La simulazione copre i primi miliardi di anni di evoluzione dell’universo. Crediti per la simulazione: Marcelo Alvarez (CITA), Tom Abel (Stanford). Per la visualizzazione: Marcelo Alvarez, Ralf Kaehler (Stanford), Tom Abel
“E’ molto difficile che la luce UV possa fuoriuscire nelle galassie, poiché esse stesse sono permeate da gas piuttosto denso” prosegue Wise. “Nelle piccole galassie c’è meno gas tra le stelle e questo rende più facile la fuga della luce UV, che viene assorbita in modo meno efficiente. In più, le esplosioni di supernova possono aprire più facilmente dei canali nello spazio attraverso i quali la radiazione ultravioletta può uscire più agevolmente dalle galassie”.
Le simulazioni tracciano anche una indicativa linea temporale in cui si è svolto il processo di reionizzazione: Circa 300 milioni di anni dopo il Big Bang l’universo era ionizzato per circa il 20 per cento, ha raggiunto il 50 per cento a 550 milioni di anni, per essere completamente ionizzato 860 milioni di anni dopo la sua creazione.
“In effetti l’idea che le principali responsabili della reionizzazione cosmica siano le galassie di piccola massa, o nane e quindi molto deboli in magnitudine è già nota da qualche anno, anche se ci sono altri scienziati che non la pensano esattamente così” commenta Eros Vanzella, dell’INAF-Osservatorio Astronomico di Bologna. “Ad ogni modo, la quantità chiave in questo tipo di studi è la frazione di fotoni ionizzanti che riesce a scappare dalla galassia e raggiungere il mezzo intergalattico (re)ionizzandolo. Secondo i ricercatori che hanno condotto queste nuove simulazioni, ci si aspetta che le galassie ‘piccole’ siano più trasparenti a questi fotoni ionizzanti, anche per i fenomeni di esplosione di supernova che possono allontanare il gas dalla galassia grazie allo loro iniezione di energia nel mezzo interstellare (feedback) e aumentare così la trasmissione lungo canali preferenziali. Inoltre ci si aspetta che, nell’universo primordiale, di galassie così piccole ce ne siano moltissime, per cui potrebbero dominare il processo globale. In conclusione: molte e trasparenti a fotoni UV ionizzanti.
Le nostre osservazioni, che sfruttano il lensing gravitazionale, hanno lo scopo di testare questi modelli e identificare osservativamente le sorgenti responsabili nel processo di reionizzazione. Essendo piccole, sono anche molto deboli e quindi per vederle serve un aiuto dai ‘telescopi cosmici’, prima che i grandi telescopi come JWST e E-ELT siano disponibili. La galassia amplificata a redshift 6.4 che abbiamo confermato poco tempo fa dietro l’ammasso di galassie MACS J0717 e di cui abbiamo visto le immagini multiple grazie all’effetto lente, è molto debole e potrebbe assomigliare alle galassie predette da Wise et al., anche se queste ultime sono ancora più deboli e piccole. A riguardo, le attuali e future osservazioni che sfruttano il metodo di lente gravitazionale giocheranno un ruolo importante. In particolare la nuova e rivoluzionaria iniziativa HST Frontier Fields dedicata a questo tipo di studi, che combina la potenza di HST con i migliori telescopi naturali gravitazionali”.
Per sapene di più:
l’articolo The birth of a galaxy – III. Propelling reionisation with the faintest galaxies di John Wise et al. pubblicato sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society
Fonte: Media INAF | Scritto da Marco Galliani