Ecco come si racconta uno di loro: «Facevo il pescivendolo, dalle 4 e mezza di mattina fino alle 3 tutto il tempo a portare il ghiaccio senza guanti, gli chiedevo se aveva i guanti e mi diceva: ti devi abituare, sei giovane. Avevo sempre il raffreddore. Alla fine mi ha dato 60 euro». Un altro: «Io avevo le vertigini e mi facevano salire su un’impalcatura di 20-25 metri. Il primo giorno stavo svenendo. E poi m’aggio abituato». Un terzo: «Avevo sempre la febbre quando lavoravo. Lavoravo la notte dalle 11 fino alle 11, 12 del giorno dopo, vendevo le pezze, stavo tutta la giornata sveglio perché non riuscivo a dormire a casa mia che tutti stavano svegli, non mangiavo bene. A fine mese mi davano 300 euro».
Molti di loro sono bambini immigrati. Uno viene dall’Egitto, ha 13 anni e la sua giornata è così descritta: «La mattina alle 5 apre la frutteria presso la quale lavora ed emette un primo scontrino di 0,01 euro che serve per dimostrare al suo datore di lavoro che effettivamente all’alba ha alzato la serranda del negozio e ha iniziato a lavorare. La maggior parte del tempo la passa nel retrobottega a pulire le verdure e la frutta; poi svuota e riempie le cassette; quando occorre serve i clienti e porta la spesa a casa di alcuni. Fino alle 20 la frutteria è aperta, poi si chiude al pubblico, ma fino alle 23 il ragazzo riordina il negozio. Fa questo per 7 giorni su 7, per un guadagno settimanale di 200 euro».
Sono esperienze di lavoro, spiega la ricerca, dove nemmeno si impara un mestiere e si allontanano i minori dalla scuola. Il lavoro non diventa così certo «maestro di vita». Tra le domande poste agli intervistati una recitava «Esiste un lavoro buono?». Pochi affermano che un lavoro buono «è quello col contratto» o, comunque, «un lavoro che ti insegna qualcosa, che ti dà una giusta paga e una sicurezza per il futuro, e che magari ti lascia pure del tempo libero».
Quali sono i lavori per i quali sono ingaggiati questi bambini che sembrano usciti da un romanzo di Dickens? Non sono molto diversi dai lavori destinati agli adulti. Il 18,7% fa il barista, il cameriere, l’aiuto cuoco; il 14,7% il commesso o l’aiuto generico in negozio o come ambulante; il 13,6% lavora in campagna. La ricerca testimonia come la crisi economico sociale in atto incentivi lo sfruttamento infantile. Dalle interviste emerge che le occupazioni dei minori «sono divenute prassi consuete anche in contesti non toccati dalla povertà estrema Al contempo, però, è la stessa crisi economica che impedisce ai minori di entrare nel mercato del lavoro, relegandoli in alcuni contesti in una sorta di marginalità sospesa: trascorrono il loro tempo per la strada, ma sembrano invisibili agli occhi delle istituzioni».
Questa importante ricerca dal titolo emblematico Game over potrebbe (dovrebbe) contribuire a far chiudere davvero questi giochi criminali, ammettendo che si possano chiamare giochi. Merito della associazione internazionale «Save the children» e merito dell’associazione Bruno Trentin. Quest'ultima, oggi presieduta da Fulvio Fammoni, non poteva battezzare meglio la prima uscita come organismo che raggruppa tutte le associazioni e gli istituti che la Cgil ha nel corso degli anni promosso nel campo della ricerca e della formazione. Un obiettivo caro, appunto, a Bruno Trentin. Un eredità inserita, come ha ricordato Susanna Camusso nella lotta per fare dell’istruzione «la prima straordinaria riforma di cui ha bisogno il nostro Paese». Cominciando a riportare i bambini nelle scuole, combattendo «l’idea che studiare è inutile». Una battaglia di civiltà che dovrebbe trovare rapidi ascolti e non essere raccolta solo da commoventi cronache.