E' passato qualche giorno da quando la Commissione Assaggio che rilascia le certificazioni per le DOC ha bocciato un campione che avevo mandato in degustazione. Non è la prima volta. Non sarà l'ultima. Ho già ripetuto diverse volte certe considerazioni in merito al sistema delle denominazioni in Italia. A questo punto mi sento di proporre a chi verrà nei prossimi mesi a trovarmi in cantina o nelle fiere a cui parteciperò un piccolo gioco innocente: farò assaggiare il vino in questione, chiaramente senza dire prima di cosa si tratti, in modo da farsi un'idea precisa se siamo noi vignaioli che non sappiamo fare il vino o se siano le commissioni assaggio a non saperlo giudicare. Senza polemica, eh?!
Sulla questione ecco il pensiero illuminato di Sandro Sangiorgi (sull'ultima miniatura):
"La denominazione d’origine è ormai un contenitore vuoto?
Non è una novità che molti vini italiani stimati dagli enofili di mezzo mondo non rientrino in una denominazione di origine o, pur essendo in regola, vengano sottratti al disciplinare. Numerosi produttori preferiscono che sulle loro migliori bottiglie appaia la dizione “vino da tavola” o “vino da tavola a indicazione geografica tipica”, mentre altri, che credono ancora nel significato della denominazione, si vedono respingere i campioni dalle commissioni perché colpevoli di eccesso di originalità. Nella miniatura vorrei riflettere solo su quest’ultimo aspetto, visto che il rapporto tra denominazione di origine e fisionomia del vino è così articolato e complesso da meritare un saggio a sé stante.
È sempre più ampia la forbice tra la concezione e la percezione di territorialità delle commissioni d’assaggio e le sensazioni espresse da molti vini dotati di personalità, sia quelli realizzati con un metodo totalmente organic, sia quelli concepiti in modo convenzionale ma prodotti con cura naturale. È impressione diffusa che i giudici-degustatori emettano le proprie sentenze basandosi su parametri sempre più ristretti ed elementari. Tale approccio favorisce il lato pratico di chi coordina l’assegnazione delle denominazioni e deve sveltire le pratiche, poiché i disciplinari doc e docg crescono in proporzione ai vini che ne fanno richiesta e dunque aumenta il numero delle commissioni. Inoltre, le poche regole necessarie a una prima sfoltitura sono accessibili anche a chi non ha la vocazione all’assaggio comparato e degusta come un fiscalista. A rimetterci sono i vini meno immediati, quelli dal primo impatto silente e un poco oscuro, capaci però di trasformarsi e durare nel bicchiere, quelli dotati di un equilibrio dinamico e di una partecipazione gustativa graduale, coinvolgente e, per questi motivi, non canonica. Vittime di un modo unilaterale di considerare il vino che premia sensazioni stabili e rassicuranti e penalizza un effluvio imprevedibile e una sana emotività. Alcuni osservatori pensano che l’origine del danno perpetrato dalle commissioni d’assaggio nasca all’interno dei licei di Enotecnica e nelle facoltà di Agraria dove ci si specializza in Enologia. Il circolo vizioso è evidente. Attraverso quali vini si esercitano gli alunni nelle lezioni dedicate all’esame organolettico? Naturalmente con quelli “canonizzati” dalle commissioni d’assaggio. Per chi studia e pratica la scienza enologica la degustazione è uno strumento fondamentale, perché permette di leggere e comprendere il liquido odoroso al di là delle pur dettagliate risultanze chimiche. Alcuni studenti mi hanno confermato che, purtroppo, accade il contrario di quello che sarebbe corretto aspettarsi: sono i collaudati profili chimici a delineare la gerarchia qualitativa. Così, appena un vino non corrisponde al modello indicato – vedi, ad esempio, quando si avverte un’ossidazione inattesa o una volatile superiore alla media tecnicamente accettabile – viene considerato difettoso e, di conseguenza, da respingere. Magari era un esemplare virtuoso, dotato di una promettente complessità, dinamico e godibile da un palato attento. Eppure, viene autorizzata la fascetta a prodotti che sin dal colore non appaiono autentici – ci sarebbe da chiedersi se sono stati realizzati con le uve previste dal disciplinare – oppure a liquidi che finiranno in bottiglie vendute sullo scaffale del supermercato a un prezzo improbabile. È più facile valutare vini semplici o molto schematici perché non pongono dubbi, non suscitano riflessioni; più difficile cogliere la bellezza nelle sensazioni desuete".