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Pier Luigi Sacco: il difficile mestiere di economista della cultura tra sfide, opportunità e un grande sogno

Da Addamico @addamico

Pier Luigi Sacco: il difficile mestiere di economista della cultura tra sfide, opportunità e un grande sogno

Credo che Pier Luigi Sacco non abbia bisogno di molte presentazioni tra i lettori di Care About Culture.

Personalmente, se non avessi incontrato, ormai un bel po’ di anni fa, gli articoli di Pier Luigi Sacco, questo blog non sarebbe nato e la mia vita professionale avrebbe sofferto di una dose di incertezze al di sopra della media.

Per una giovane operatrice culturale alle prese con i primi scricchiolii lavorativi (riunioni di direzione sempre più agitate, traslochi in sedi sempre più ridotte e ‘a buon mercato’), trovare qualcuno che per la prima volta accostasse la parola “cultura” a quella di “economia”, è stata una specie di illuminazione sulla via di Damasco.

Da quel momento ho intrapreso un’attività di ‘pedinamento’, non invadente ma determinata, che mi ha portato a conoscere termini come fundraising, sostenibilità della cultura, responsabilità sociale d’impresa, industrie creative. Un mondo ‘altro’, dove le (mie) utopie erano un po’ meno utopie e i (miei) problemi un po’ meno problemi e, soprattutto, non solo miei. In questo mondo continuo a muovermi ogni giorno, tra insidie e illusioni, ma sempre più convinta che anche le sfide più difficili possono diventare opportunità.

E spero che dopo aver letto l’intervista a Pier Luigi Sacco lo sarete anche voi.

Partiamo dalla cronaca: l’incertezza politica di queste settimane come si ripercuote sulla cultura?

E’ una situazione che mi preoccupa. Se prima era difficile fare entrare la cultura nelle priorità dell’agenda di politica economica, adesso è ancora più difficile. Le indicazioni che ci arrivano da questa tornata elettorale sono, comprensibilmente per altro, quelle di una società preoccupata della gestione del quotidiano e desiderosa di un profondo ripensamento della cultura politica di questo Paese. E’ chiaro che questo sposta tutto l’interesse della politica su un altro piano e non è un caso che si tende a parlare di un’agenda politica minimale, di grandi urgenze e oggettivamente, per come è l’Italia di questi anni, non credo che tra queste grandi urgenze ci sia la cultura.

Una situazione resa ancora più complicata dalla crisi economica?

E’ indubbio che, in una fase come questa, troveremo ancora più di prima la cultura al margine e ancora più di prima sotto pressione dal punto di vista delle risorse. Ma per gestire le emergenze di questo Paese dobbiamo anche capire come crescere a lungo termine. E la mia personale convinzione è che questo Paese senza un lavoro innovativo sulla cultura, sull’intera macrofiliera culturale, non troverà un modello di crescita sostenibile e soprattutto competitivo. Forse per il dibattito economico più ortodosso questo potrà apparire un punto di vista irrilevante, marginale. Io penso invece non sia così.

Lei crede che negli ultimi anni al sistema culturale italiano sia mancata una certa visione del futuro per eccesso di autoreferenzialità?

Non credo. E’ chiaro che ci sono atteggiamenti diversi: c’è una certa autoreferenzialità, che spesso si fonda su una concezione abbastanza cristallizzata della cultura e poco sensibile ai mutamenti del contesto, ma esiste anche un mondo culturale mentalmente più aperto e che ha voglia di confrontarsi.

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Credo che il problema stia principalmente nella bassissima cultura specifica della nostra politica, che prende in considerazione la cultura al più come puro artificio retorico. Quando proprio si finisce con le spalle al muro nei ragionamenti sul futuro del Paese, s’invoca la cultura per uscire dall’imbarazzo, ma senza avere la minima idea di un modello di sviluppo. Questo è terribile. E il danno procurato alla credibilità della cultura come leva di sviluppo è notevole. Abbiamo dei politici che non ‘ascoltano’ la cultura, non sono interessati a capirla e non credono che sia importante. Una situazione molto diversa da quella che spesso trovo in altri Paesi.

In che senso?

Da quasi venti anni lavoro in Italia e da quindici mi occupo di economia della cultura. Quando sono all’estero riesco spesso a ottenere un livello di attenzione politica che in Italia non è minimamente immaginabile. E questo naturalmente accade non perché sia io a richiederlo, ma in quanto c’è interesse verso chi è portatore di opportunità e competenze in ambito culturale, che possono essere utilmente tradotte in politiche. Una situazione veramente frustrante per me.

Non amo dare troppo peso alle vicende personali, ma devo ammettere che negli ultimi anni il fatto che sia sempre più ‘risucchiato’ professionalmente verso l’estero, mi dà da pensare. La maggior parte dell’investimento di tempo e di energie che dedico ai progetti in Italia è a fondo perduto. Al contrario, nei passaggi all’estero, anche rapidi, anche in Paesi che visito per la prima volta, trovo spesso una concretezza e una determinazione a tradurre le idee in progetti a cui tanti anni di Italia mi hanno abituato poco, e che continua a sorprendermi positivamente. E se capita a me sono sicuro che capiterà a tanti altri.

Perché deve essere così difficile fare progetti in Italia? E’ possibile rovesciare la situazione? Io continuo a provarci, ma certamente occorre molta ostinazione e una grande capacità di gestire la frustrazione.

Perché il pubblico della cultura è così inascoltato?

Va detto che l’Italia è fondamentalmente spaccata in due: per un italiano che legge con passione, un altro non prende in mano un libro o un quotidiano. Le persone veramente interessate all’esperienza culturale sono sotto il 50% e abbiamo tassi di partecipazione tra i più bassi a livello europeo. Il valore sociale della cultura non è abbastanza radicato nell’opinione pubblica italiana e questo spiega la disattenzione della politica.

I politici prestano poca attenzione perché la cultura non è mai decisiva; scegliere di occuparsi di cultura in campagna elettorale è una scelta perdente, non è un tema che galvanizza l’elettorato e anzi rischia di alienarlo. L’unica soluzione che intravedo è agire sul locale. Ottenere risultati eclatanti a livello locale può diventare un modello da adottare a livello nazionale. Certo anche il locale in Italia è difficile – basti pensare a come la trappola del patto di stabilità abbia pressoché azzerato la possibilità di politiche culturali a lungo termine – ma è l’unica strada che vedo percorribile. Ed è anche il motivo per cui ho scelto di occuparmi del progetto di Siena Capitale europea della Cultura 2019.

Una sfida non da poco, dato il momento difficile che sta attraversando la città di Siena.

Decisamente. Credo di poter dire che è l’impegno più difficile di cui mi sia occupato. La città è percepita come una città molto problematica e in questo momento tende ad essere spesso criminalizzata dall’opinione pubblica nazionale, estendendo ingiustamente alla città responsabilità che in ultima analisi sono di pochi. Non andrebbe dimenticato che stiamo parlando di una città che ha un tessuto di società civile tra i più sani e vitali d’Italia. E se è vero che per molti anni a Siena si è speso molto, va anche considerato che, a differenza che altrove, questa spesa ha contribuito a creare un livello di qualità della vita e di sostenibilità ambientale che ha pochi riscontri nel nostro Paese.

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Quali gli elementi chiave della strategia su cui state lavorando?

Siamo partiti ponendoci una domanda chiave: Cosa si aspetta Bruxelles dall’Italia? Si aspetta molta creatività, ma non tanto in termini di eventi e da interventi tradizionali sul patrimonio (penso al modello seguito da Genova nel 2004: grandi mostre, restauri ecc..), quanto di come la cultura possa diventare una leva efficace per uscire dalla crisi. Nel caso di Siena, per la storia e le eccellenze che la città possiede, non si può prescindere dal tema del patrimonio, che intendiamo però intrecciare al tema dell’innovazione.

Vogliamo dimostrare che il patrimonio è un elemento chiave sia dal punto di vista tecnologico, sia dal punto di vista della partecipazione dei cittadini. Siena ha un senso della storia e della memoria che forse nessun’altra città italiana possiede, e un’energia straordinaria. La città è sotto stress, ma se riusciamo a dimostrare che si può fare innovazione sociale attraverso la cultura in una situazione così estrema, il risultato potrebbe essere sorprendente.

Lei crede che la crisi di identità economica della città possa diventare un’occasione di rilancio dell’identità culturale? Come sta reagendo il territorio?

Il coinvolgimento del territorio è una priorità per un progetto del genere ed è per questo che abbiamo avviato un’intensa attività di ascolto delle realtà che ne fanno parte. A partire dalle istituzioni cittadine, le due Università, le Soprintendenze, il mondo delle contrade (realtà complesse e vitali che nulla hanno a che fare con certo folklore improvvisato, e che non hanno eguali al mondo), i soggetti economici, le associazioni.

Abbiamo visitato centinaia di spazi, individuato le leve su cui contare, e abbiamo scelto di occuparci di svariati temi: per esempio la disabilità, il multiculturalismo, l’occupazione giovanile. Se non creiamo spazi di iniziativa professionale per i giovani senesi e per tanti studenti fuori sede che abitano in città, molti andranno via.

Può descriverci lo staff che la sta affiancando sul progetto di Siena Capitale della Cultura 2019?

E’ la cosa di cui sono più orgoglioso: uno staff fatto quasi completamente di ventenni, pieni di energia ed entusiasmo. Quella di Siena è una candidatura costruita attraverso i giovani, e che punta a formare una generazione di tecnici in grado di far crescere il territorio.

Naturalmente ai giovani si affiancano persone di esperienza che facilitano il lavoro del gruppo e mantengono i rapporti con le istituzioni. E’ un gruppo che lavora giorno per giorno, perché un progetto del genere richiede un impegno totale.

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Essere un economista della cultura nel Belpaese non deve essere semplice. La sua personale cassetta degli attrezzi include…?

Gli economisti della cultura sono figure insolite, in Italia, ma non solo. Questo rende l’ideale cassetta degli attrezzi molto complicata. Ovviamente bisogna sapere di economia, ma anche avere una conoscenza di prima mano della cultura, che non può essere soltanto la conoscenza dell’appassionato. All’inizio l’economista della cultura era un economista che magari aveva preso un diploma di violino al Conservatorio, o con un grande interesse per la letteratura. Non funziona più così. La cultura non può essere affrontata in maniera amatoriale, richiede un’applicazione professionale che esige un investimento di tempo e una flessibilità mentale molto forte in termini di competenze. Bisogna mantenere un contatto diretto e quotidiano con i campi culturali di cui ci si occupa e bisogna andare molto molto al di là dei propri interessi personali.

Economia e cultura troveranno il modo di convivere in armonia?

Lo fanno già più di quanto non si tenda a pensare, ma certamente occorrono progetti pilota che lo mostrino chiaramente. Ad esempio, uno dei progetti che mi affascina di più in questo momento è il dialogo profondo avviato con la School of Humanities di Harvard. Stiamo ragionando su come sviluppare un percorso formativo che permetta ai loro studenti (che racchiudono il meglio del talento mondiale) di espandere il loro campo di azione dalle tradizionali competenze nelle humanities ai temi dell’economia della cultura. E devo dire che i primi segnali sono molto positivi. Si tratta di un esperimento che mi stimola molto, sia sul piano della ricerca sia dal punto di vista dell’elaborazione di un nuovo modello formativo.

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Un modello esportabile in Italia?

Sarebbe bello che un giorno il progetto potesse trovare un’applicazione anche in Italia. Sicuramente ci proveremo.

Come vede l’attuale panorama universitario italiano?

Il quadro è difficile. Lo studente italiano è mediamente abbastanza motivato e nella fascia più alta gli studenti italiani sono competitivi dal punto di vista delle competenze, e in genere quando vanno a studiare nelle migliori università straniere fanno sempre molto bene. Ma abbiamo una situazione in cui, in casa nostra, i segnali sociali non sono molto incoraggianti. E’ difficile che uno studente oggi trovi nell’università un’opportunità di crescita professionale. Abbiamo una generazione di giovani ricercatori che faticano a inserirsi, vittime di gruppi di interesse accademici fortissimi che presidiano lo status quo e condizionano (negativamente) la possibilità di un cambiamento.

Al momento attuale è pressoché impossibile, in coscienza, invitare un promettente ricercatore straniero a fare domanda per un posto in Italia, e purtroppo questo vale sempre di più anche per i nostri giovani ricercatori, per quanto promettenti. Non siamo in grado di garantire loro un giusto riconoscimento in termini di carriera professionale. Per certi versi credo stia diventando un problema di coscienza rassicurare i giovani ricercatori italiani, incoraggiandoli a tentare una carriera accademica nel nostro Paese. Le delusioni sono fortissime, e si rischia di rovinare loro la vita all’inseguimento di traguardi che in via di principio sarebbe ampiamente alla loro portata ma che non si raggiungono mai. E’ triste doverlo dire, ma è così.

Per ritrovare il sorriso, ci ricorda il suo primo incontro con la cultura?

Non saprei definirlo esattamente, la cultura mi ha sempre interessato. Da bambino, non andavo ancora a scuola, ma passavo ore a sfogliare i libri di storia dell’arte che trovavo nella biblioteca di casa. La cultura fa parte della mia vita, non potrei pensarla altrimenti. Ricordo però quando ho iniziato a pensare seriamente che potesse far parte della mia vita professionale: era il periodo in cui mi trovavo a Firenze, come ricercatore.

Non mi occupavo di economia della cultura e non sapevo bene cosa fosse, ma osservando il modo con cui la città viveva di turismo culturale, un modo per tanti versi contradditorio (ricordo file interminabili agli Uffizi e il Bargello completamente deserto), ho iniziato a riflettere e ho deciso di occuparmene, dapprima in modo quasi occasionale, poi con sempre maggiore interesse e convinzione. La cultura mi è parsa da subito un laboratorio ‘sociale’ molto interessante: Firenze, per esempio, era una città che viveva un’identità culturale proiettata al passato, un cosa paradossale visto che la cultura è sempre, inevitabilmente, contemporanea.

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Forse la contemporaneità fa paura?

Non posso non pensare al famoso lavoro di un artista come Maurizio Nannucci, che guarda caso è proprio fiorentino, la famosa installazione che dichiara “All art has been contemporary”. Non si può avere paura del proprio tempo: è come se un pesce avesse paura dell’acqua in cui nuota. Ci viviamo dentro.

A un anno dalla pubblicazione del Manifesto Niente cultura, niente sviluppo del Sole 24 Ore, quali sono le sue considerazioni?

La cosa che considero più importante di questo anno di mobilitazione è il discorso che il Presidente Napolitano ha tenuto durante gli Stati generali della cultura di Roma. E’ stata la prima volta che abbiamo sentito un discorso politico fatto da un alto rappresentante istituzionale che avesse davvero qualcosa da dire sulla cultura e sul rapporto tra cultura e futuro di questo Paese. Anche solo per questo, ha colto nel segno e ci ha permesso di stabilire un precedente storico di cui non sarò mai abbastanza grato al nostro Presidente.

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Detto questo, cosa produrrà davvero è forse ancora presto per dirlo. Del resto, non è un’iniziativa isolata, per quanta ambiziosa, che può produrre dei risultati. Abbiamo bisogno della mobilitazione della società civile italiana, ma purtroppo la capacità di tenuta della nostra opinione pubblica, quando si parla di cultura, è troppo limitata. Siamo ancora in mezzo al guado.

Le tre notizie positive che vorrebbe ricevere nel corso del 2013?

Un ministro della cultura finalmente competente, che sappia di cosa si parla e che eviti dichiarazioni retoriche e prive di fondamento, e si concentri su una politica culturale vera. Sempre che il governo glielo permetta. La seconda buona notizia: cominciare a vedere in Italia segni concreti di una nuova imprenditoria culturale, soprattutto giovanile.

E poi vorrei vedere tanta gente negli spazi della cultura: ci sono stati momenti in cui è accaduto, come per l’apertura del MAXXI a Roma, sembrava quasi che improvvisamente la società italiana fosse tornata ad accorgersi della cultura. E sarebbe bello che accadesse non solo nelle giornate dedicate al patrimonio, ma come fatto spontaneo, quotidiano. Ne sarei veramente contento.

Una domanda dal futuro: Siena vincerà e diventerà Capitale europea della Cultura 2019 perché…?

Perché ne ha un grande bisogno e ha tutti gli strumenti per farcela, ed essere per l’Europa un vero laboratorio di innovazione per la politica culturale.

Il fundraising culturale è un pianeta in continua evoluzione: quali sono le prossime tappe del viaggio?

Fare fundraising in ambito culturale vuol dire, in primo luogo, conoscere la cultura dal di dentro. Per coinvolgere il proprio interlocutore e creare le condizioni perché qualcuno entri emotivamente in sintonia con i nostri obiettivi e li condivida, dobbiamo esserne completamente padroni. Oggi il fundraiser è colui che segue un progetto dall’inizio alla fine, non esclusivamente colui che si occupa di raccolta fondi. Chi dice che un progetto culturale può essere venduto chiavi in mano, non conosce assolutamente come funziona la cultura.

Le parole chiave del suo #trendcultura, progetto lanciato da Care About Culture, sono: #partecipazione, #imprenditorialità e #innovazione. Si può fare innovazione quando si ha a che fare con un patrimonio da conservare?

Si può e si deve! L’Italia ha un grande patrimonio culturale e questo è imprescindibile, ma non pensiamo che possano sostenerlo mecenati più o meno generosi e sensibili. La conservazione ha bisogno di una grande consapevolezza sociale. La sfida che aspetta tutti noi che ci occupiamo di cultura è convincere gli italiani (e i politici italiani) che il nostro patrimonio è li non perché è il petrolio, ma perché è ciò che crea la nostra identità nel mondo e che ci assicura un futuro, attraverso la sua capacità di continuare a produrre idee. Mantenerlo è nostra precisa responsabilità.

Io sono convinto che pochi campi sono favorevoli all’innovazione come quello del patrimonio. Oggi abbiamo sempre più bisogno di nuovi strumenti che ci permettano di vivere, descrivere, raccontare il nostro patrimonio, in modo sempre più ricco e coinvolgente. Strumenti che solo l’integrazione tra cultura digitale e humanities può fornirci. Il mio sogno è che la cultura sia finalmente riconosciuta come una delle principali piattaforme di sviluppo su cui costruire, o forse dovrei dire ricostruire, l’Italia di domani.

Ricostruire attraverso un sogno non è un lavoro da poco, forse il mestiere più difficile. Ma condividere un sogno è il modo migliore per dargli forza e iniziare a viverlo.

La so che la situazione è molto complicata, ma aver fatto questa intervista a due passi dalla Sinagoga di Firenze (grazie Tomas!) e aver terminato di sbobinarla mentre si affacciava per la prima volta dal loggione di San Pietro il Papa Francesco, mi ha dato speranza

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