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Pier Paolo Pasolini e l’intervista di Enzo Biagi

Creato il 02 novembre 2015 da Marvigar4

pasolini

“Mentre ero direttore de «Il Resto del Carlino» continuai a fare la televisione. Da Bologna. Per l’esattezza, dal teatro dell’Antoniano, dove veniva prodotto lo Zecchino d’oro: negli anni, i frati francescani avevano realizzato un teatro per le trasmissioni tv. Il mio programma si chiamava Terza B: facciamo l’appello, dieci puntate dedicate a una serie di personaggi che, a loro insaputa, incontravano ex compagni di scuola, amici dell’adolescenza, i timidi amori. Il protagonista di una serata fu Pier Paolo Pasolini: la sua prima e credo unica intervista televisiva. In quel periodo si parlava molto di lui, era appena uscito il suo ultimo film Decameron, che era stato premiato al Festival di Berlino con l’Orso d’argento e, come al solito in occasione dell’uscita dei suoi lavori, aveva suscitato molte polemiche. L’intervista fu censurata. Fu mandata in onda solo dopo la sua morte, nel 1975. La trasmissione fu bloccata perché lo scrittore era stato denunciato per «istigazione alla disobbedienza» e «propaganda antinazionale», denunce che si era procurato quando aveva diretto «Lotta Continua». Pasolini era delle mie parti, era nato a Bologna in via Borgonuovo, una stradina dietro piazza Santo Stefano, poi la famiglia si era trasferita in via Nosadella. Il padre Carlo Alberto era capitano di fanteria e comandava le truppe a Bologna quando ci fu l’attentato a Mussolini nel 1926. Chi sparò era un ragazzo quindicenne, Anteo Zamboni, che fu immediatamente linciato dai fascisti che erano attorno al Duce. Oggi sul luogo c’è una lapide che lo ricorda: «Bologna di popolo congiuntamente onorando i suoi figli eroici immolatisi nella ventennale lotta antifascista con questa pietra consacra nei tempi Anteo Zamboni per audace amore di libertà il 31-10-1926 qui trucidato martire giovanetto dagli scherani della dittatura». Nel dopoguerra conobbi il fratello al «Carlino» perché eravamo nella stessa redazione. Insieme a Pier Paolo Pasolini vennero in studio alcuni compagni di classe del liceo Galvani di Bologna del 1938: Odoardo Bertani, giornalista, Agostino Bignardi, deputato del Partito Liberale, Carlo Manzoni, medico condotto, Nino Pitani, attore, il mio amico Sergio Telmon, giornalista Rai, allora corrispondente dalla Germania, e un loro professore, Carlo Gavallotti. Dopo una mia breve presentazione del protagonista, feci vedere la foto di classe e chiesi al poeta chi dei ragazzi presenti gli sarebbe piaciuto rivedere. Mi rispose: «Parini, perché era il mio più caro amico, il mio compagno di banco. Facevamo sempre la stessa strada per tornare a casa, era uno degli amici più cari. E’ morto in Russia e per tanti anni ho sognato che ritornava, almeno fino al 1950».

«Lei era molto bravo a scuola?».

«No, molto no perché ero un po’ discontinuo. Insomma, ero sull’otto. In greco a volte portavo a casa l’otto, a volte un misero sei. Quello che amavo soprattutto era il latino. Mi piaceva più tradurre oralmente che per iscritto. Leggevamo le Egloghe a voce alta e traducevamo improvvisando. Mi piaceva molto».

Non fu un’intervista facile, avevo la sensazione che Pasolini non si fidasse di me; in fin dei conti allora io ero direttore di un giornale molto borghese, anche se fatto a modo mio. Invece a lui non importava, era autentico, credeva nelle cose che diceva e basta. Ma lo capii dopo. Probabilmente, siccome era molto restio a parlare con i giornalisti, ero io molto più prevenuto nei suoi confronti di quanto lo fosse lui nei miei. A me Pasolini piaceva, era della mia città, Ragazzi di vita, Vita violenta, gli Scritti corsari sono tra le pagine più importanti della nostra letteratura e oggi, che si sta parlando dopo tanti anni dal suo omicidio, forse più per ragioni politiche che non per il movente sessuale, ammetto che tutti noi avremmo potuto fare qualcosa in più per lui. Continuai l’intervista chiedendogli dei sogni di allora e lui, in modo anche un po’ provocatorio mi rispose: «E’ una domanda che mi sorprende perché proprio la mia vita è caratterizzata dal fatto di non aver perso nessuna illusione».

«Lei, per esempio, si è mai sentito vittima di un’ingiustizia?».

«Sì, ma sono casi personali che non ho mai voluto generalizzare».

«Chi ha influito di più nella sua vita, suo padre o sua madre?».

«I primi tre anni mio padre, che poi ho completamente dimenticato: dopo, mia madre».

«Lei aveva un fratello: andavate d’accordo?».

«Sì, cioè litigavamo molto come succede tra fratelli ma fondamentalmente ci volevamo molto bene, e andavamo molto d’accordo».

«Lui è stato partigiano».

«».

«E lei no».

«Non è vero. Io non ero un partigiano armato, ero un partigiano ideologico. Ero sempre in contatto con mio fratello e scrivevo articoli per i giornali dei partigiani».

«I racconti che faceva sua madre nella sua infanzia hanno avuto un peso nella formazione del suo carattere?».

«I racconti non tanto, la sua ideologia sì, l’ideologia che è formata da tutte quelle illusioni di cui lei mi parlava prima: l’essere buoni, bravi, generosi, darsi agli altri, del credere e del sapere eccetera eccetera».

«La sua famiglia era religiosa?».

«No, mio padre che era un nazionalista, se non proprio fascista quasi, aveva una religione di tipo formale, in chiesa la domenica alla messa grande, a quella dove vanno i borghesi, i ricchi. Mia madre, invece, aveva una religione rurale, contadina, presa da sua nonna, una religione molto poetica, ma per niente convenzionale, per niente confessionale». Poi gli chiesi se da giovane era triste. E lui lo chiese agli ex compagni, che in coro risposero no.

«Lei, Pasolini, come se la cavava con le adunate col moschetto?».

«Da una parte ne ho un ricordo spaventosamente deprimente, perché si stava per delle ore fermi in certe viuzze battute dal sole e allora li i ragazzi, presi dalla noia e dalla frenesia, cominciavano a dire delle stupidaggini, delle follie. I discorsi che si facevano tra adolescenti mi deprimevano. D’altra parte ricordo che una volta io e Telmon siamo andati a sciare a Cortina, in una specie di campeggio, e si facevano spesso dei discorsi antifascisti. L’antifascismo mio è nato quasi contemporaneamente a quello di Bignardi, che aveva letto per conto suo Baudelaire. Io invece l’anno dopo, quando il professor Antonio Rinaldi venne da noi a fare il supplente di storia dell’arte e, non sapendo cosa fare e cosa dire — era un ragazzo anche lui —, ci ha letto una poesia di Rimbaud, ecco, in quel momento li è scattato in me l’antifascismo».

«Come ci si sente a essere tanto spesso contestati?».

«Chi lavora come me è impegnato nel suo lavoro e lascia che i discorsi gli altri li facciano tra di loro. Non sono abbonato all’«Eco della Stampa» quindi non leggo mai niente di quello che si dice di me, evito di ascoltare i discorsi fatui. Ogni tanto mi arrivano delle cose, ma insomma non me ne occupo molto».

«Lei ha scritto: “Sul piano esistenziale io sono un contestatore globale. La mia disperata sfiducia in tutte le società storiche mi porta a una forma di anarchia apocalittica”. Che mondo sogna?».

«Per un certo tempo, da ragazzo, ho creduto nella rivoluzione come fanno i ragazzi di adesso. Ora comincio a crederci un po’ meno. Sono in questo momento apocalittico, vedo di fronte a me un mondo doloroso e sempre più brutto. Non ho speranze, quindi non mi disegno nemmeno un mondo futuro».

«Mi pare che lei non creda più ai partiti. Cosa propone in cambio?».

«No, se mi dice che non credo più ai partiti mi dà del qualunquista e io invece non sono un qualunquista. Tendo più verso una forma anarchica che verso una forma ideologica di qualche partito, questo sì. Ma non è che non credo ai partiti».

«Perché lei sostiene che la borghesia sta trionfando, per esempio? Ma lei non critica anche il Partito Comunista contemporaneamente? Non si colloca come precursore della contestazione?».

«Sì, questo è oggettivamente vero. La borghesia sta trionfando in quanto la società neocapitalistica è la vera rivoluzione della borghesia. La civiltà dei consumi è la vera rivoluzione della borghesia. E non vedo alternative perché anche nel mondo sovietico in realtà la caratteristica dell’uomo non è avere fatto la rivoluzione, vivere eccetera, ma quella di essere un consumista. La rivoluzione industriale in un certo senso livella tutto il mondo».

«Lei si batte contro l’ipocrisia, sempre. Quali sono i tabù che vuole distruggere? Le prevenzioni sul sesso, lo sfuggire alle realtà più crude, la mancata sincerità nei rapporti sociali?».

«Questo l’ho detto fino a dieci anni fa. Adesso non dico più queste cose perché non ci credo: la parola speranza è cancellata dal mio vocabolario. Quindi continuo a lottare per verità parziali, momento per momento, ora per ora, mese per mese, ma non mi pongo programmi a lunga scadenza perché non ci credo più».

«Lei non ha speranze?».

«No».

«In fondo questa società che lei non ama le ha dato tutto, le ha dato il successo, la notorietà. . . ».

«Il successo non è niente, è l’altra faccia della persecuzione, non so come dire. E poi il successo è sempre una cosa brutta per un uomo. Può esaltare al primo momento, può dare delle piccole soddisfazioni a certe vanità. Ma in realtà, appena ottenuto, si capisce che è una cosa brutta per un uomo. Per esempio, il fatto di avere trovato i miei amici qui alla televisione non è bello. Per fortuna siamo riusciti ad andare al di là dei microfoni e del video e a ricostituire qualcosa di reale, di sincero, ma come posizione la posizione è brutta, è falsa».

«Perché, cosa ci trova di così anormale?».

«Perché la televisione è un medium di massa e un medium di massa non può che mercificarci e alienarci».

«Ma questo mezzo che porta i formaggini in casa come lei una volta ha scritto, adesso nelle case porta le sue parole. Stiamo discutendo con grande libertà, senza alcuna inibizione.. .».

«No, non è vero».

«Sì, è vero, lei può dire tutto quello che vuole».

«No, non posso dire tutto quello che voglio».

«Lo dica. . . ».

«No, no perché sarei accusato di vilipendio, di vilipendio del codice fascista italiano. In realtà io non posso dire tutto. E poi, a parte questo, di fronte all’ingenuità e alla sprovvedutezza di certi ascoltatori io stesso non vorrei dire certe cose. Quindi, mi autocensuro. Ma non è tanto questo, è il medium di massa in sé. Dal momento in cui qualcuno ci ascolta dal video, ha verso di noi un rapporto da inferiore a superiore che è un rapporto spaventosamente antidemocratico».

«Ma io penso che in certi casi sia un rapporto alla pari, che lo spettatore che è davanti allo schermo riviva, attraverso le vostre vicende, anche qualcosa di suo, non è in uno stato di inferiorità. Perché non può essere alla pari?».

«Teoricamente sì. Alcuni spettatori che culturalmente, per privilegio sociale, ci sono alla pari, prendono queste parole e le fanno loro, ma in genere le parole che cadono dal video cadono sempre dall’alto, anche le più democratiche, anche le più vere, le più sincere…Io non parlo di noi in questo momento alla televisione, parlo della televisione in sé come mezzo di comunicazione di massa. Ammettiamo che questa sera ci sia con noi anche una persona umile, un analfabeta, interrogato dall’intervistatore. La cosa vista dal video acquista sempre un’aria autoritaria, fatalmente, perché viene data come da una cattedra. Il parlare dal video è parlare sempre ex cathedra, anche quando questo è mascherato da democraticità».

«Credo che questo possa avvenire anche con il libro e con il giornale. Ognuno rimane della sua idea. Lei è stato anni fa per Ragazzi di vita uno dei primi scrittori italiani chiamati in tribunale con l’accusa di oscenità ed è stato difeso, se ricordo bene, da Carlo Bo, critico cattolico. A distanza di tempo come giudica certi scrittori erotici di oggi e il dilagare dell’erotismo nel cinema, in libreria, nelle edicole?».

«Per me l’erotismo nella vita è una cosa bellissima, e anche nell’arte. È un elemento che ha diritto di cittadinanza in un’opera come qualsiasi altro. L’importante è che non sia volgare. Per volgarità non intendo quello che si intende generalmente, ma un’esposizione razzistica nell’osservare l’oggetto dell’eros. La donna nei film erotici o nei fumetti erotici è presentata artisticamente come un essere inferiore. Allora in questo caso è vista volgarmente e quindi l’ eros è puramente una cosa volgare, commerciale».

«Come mai un marxista come lei prende spesso ispirazione da soggetti che escono dal Vangelo o dalle testimonianze dei seguaci di Cristo?».

«Ritorniamo sempre a quel mio vivere in maniera molto interiore le cose. Evidentemente il mio sguardo verso le cose del mondo, verso gli oggetti, è uno sguardo non naturale, non laico.Vedo sempre le cose come un po’ miracolose, ogni oggetto per me è miracoloso: ho una visione sempre in forma, diciamo così, non confessionale, ma in un certo modo religiosa del mondo. Ecco perché questo modo di vedere le cose è presente anche nelle mie opere».

«Il Vangelo la consola?».

«Io non cerco consolazioni. Io cerco umanamente ogni tanto qualche piccola gioia, qualche piccola soddisfazione, ma le consolazioni sono sempre retoriche, insincere, irreali. Ma lei intende il Vangelo di Cristo?».

«».

«Allora in questo senso escludo totalmente la parola consolazione».

«Che cos’è per lei?».

«Per me il Vangelo è una grandissima opera di pensiero che non consola, che riempie, che integra, che rigenera, che mette in moto i propri pensieri, ma la consolazione… che farcene della consolazione? Consolazione è una parola come speranza».

«Qual è stato il suo più grande dolore?».

«Detto così a bruciapelo non so rispondere. Probabilmente la morte di mio fratello, oggettivamente, soprattutto il dolore di mia madre alla notizia della sua morte».”

Tratto da:  L’Italia del ’900 di Enzo Biagi (in collaborazione con Loris Mazzetti), Rizzoli, 2007. pp. 201-205

https://marteau7927.wordpress.com/2011/05/16/pasolini-biagi-terza-b-facciamo-lappello-1971/


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