“Sono Oriana Fallaci. Padellaro, ascolta bene: Pasolini è stato ucciso dai fascisti. DAI FASCISTI, devi scriverlo”. Sarà stato il giorno dopo la scoperta del corpo maciullato all’Idroscalo di Ostia e il telefono sulla mia scrivania nella redazione romana del Corriere della Sera (allora in via del Parlamento) vibrava di rabbia. Lusingato, ma anche intimorito dall’attenzione della grande collega, non sapevo cosa rispondere. Balbettai qualcosa sulle indagini di polizia, cose a cui la voce non era minimamente interessata. Voleva, anzi intimava un titolo sul Corriere dell’indomani, che non ebbe.
In quelle ore non avevamo alcun elemento di fatto per scrivere che Pier Paolo Pasolini era stato vittima di un agguato fascista, ma solo il sesto senso della Fallaci che virgolettai fedelmente. Non mi cercò più.
Non avevamo alcun elemento per scrivere che era stato vittima di un agguato fascista, ma solo il sesto senso della Fallaci che virgolettai fedelmente. Non mi cercò più
La mattina del 2 novembre 1975, fui buttato giù dal letto dai latrati inconfondibili di un redattore capo che usava l’espressione “cazzo” come normale convenevole sostitutivo di buongiorno e buonasera: “Cazzo – urlava –, corri subito a Ostia, hanno ammazzato Pasolini ”.
Al Corriere ero una specie di ragazzo di bottega addetto alla compilazione di certi microscopici articoletti che solo eccezionalmente potevo siglare con le iniziali A.P., e di cui molto mi gloriavo. Come mai, allora, il più grande giornale italiano, in grado di schierare un arsenale di prestigiose firme, di inviati specialissimi, di celebri scrittori ricorreva all’ultima ruota del carro per raccontare il delitto del secolo? La morte violenta del suo collaboratore più scandaloso e controverso, chiamato da Piero Ottone nel tempio bigotto di via Solferino, l’autore di quella rivelazione sul pozzo nero italico che dice: “Cos’è questo golpe? Lo so. Ma no ho le prove”. Perché proprio io? Me lo sono domandato spesso e mi sono dato l’unica risposta possibile: quel 2 novembre era un giorno festivo e nessun altro aveva risposto al telefono.
La mattina del 2 novembre 1975 fui buttato giù dal letto dai latrati inconfondibili di un redattore capo: “Cazzo, corri subito a Ostia, hanno ammazzato Pasolini”
Sono trascorsi quarant’anni e non dirò che ricordo tutto perfettamente. Ma qualcosa sì. Da qualche anno, in via dell’Idroscalo di Ostia, nel luogo dove fu ucciso Pasolini, c’è un parco ben curato, impreziosito da un monumento alla scrittore e da citazioni dei suoi libri incise su lastre di marmo. Quel giorno mi trovai a camminare su uno sterrato impastato di fango e sangue. Il cadavere era già stato portato via ma per la polizia scientifica la minuziosa ricostruzione di quanto accaduto nella notte sarebbe stata ancora possibile. Prima, naturalmente, che la folla di persone accorse alla notizia e lasciate libere di sostare e passeggiare, come visitatori di una mostra, calpestassero e cancellassero ogni segno e impronta utili alle indagini. A ben guardare, le stazioni di quella via crucis erano unite da un filo rosso. Un pezzo di legno strappato alla staccionata macchiato di materia cerebrale.
La processione degli amici. Alberto Moravia che ripeteva sgomento: “E’ una cosa orribile orribile”. Ninetto Davoli: “Era le persona più buona del mondo”
Il solco circolare degli pneumatici dell’Alfa Gt di Pasolini e l’avvallamento lasciato dal corpo investito e schiacciato dall’assassino messosi al volante. Tutt’intorno, frammisti allo sfasciume della risacca una fioritura di fazzoletti di carta con il dna di prostitute e clienti che lì ogni notte si appartavano, e chissà anche dei massacratori, se ad agire era stato più di uno. Con l’arrivo delle telecamere Rai, i testimoni si fecero volentieri avanti. “L’ho trovato io”, sosteneva la signora Maria, “erano le sei e trenta e ho visto quella cosa in mezzo alla strada mi sono avvicinata ed era un corpo”. La processione degli amici. Alberto Moravia che ripeteva sgomento: “E’ una cosa orribile orribile”. Ninetto Davoli: “Non ci sono parole, era le persona più buona del mondo”. Mentre un tizio con un grosso cane al guinzaglio distillava massime di vita: “Se scherzi cor foco prima o poi t’abbruci”. La tesi dell’intellettuale communista e frocio che aveva avuto il benservito circolava già indiscutibile. Qualche passo oltre alcuni ragazzotti con i rayban d’ordinanza osservavano e ridacchiavano.
Per non prendere buchi cercavo di origliare i commenti dei cronisti di nera del Messaggero, del Tempo, di Paese Sera, vecchi lupi di mare che facevano capannello. Uno lo conoscevo, divideva i moventi dei delitti di sangue in due categorie dello spirito: robba de pelo e robba de culo. Non poteva avere dubbi.
Pino Pelosi aveva reso piena confessione. Un rapporto omosessuale finito male. Tutto chiaro. Caso chiuso. Invece non era chiaro quasi nulla
Tornato in redazione, trovai montagne di agenzie. A uccidere Pasolini era stato un giovane prostituto, Pino Pelosi, fermato dalla polizia a bordo dell’Alfa rubata. Aveva reso piena confessione. Un rapporto omosessuale finito male. Tutto chiaro. Caso chiuso.
Invece non era chiaro quasi nulla. E non mi riferisco alle successive ritrattazioni di Pelosi e alle contro inchieste condotte dagli amici del poeta con l’aiuto di esperti e avvocati: un puzzle delle tante omissioni e menzogne, ricostruito nel 1995 da Marco Tullio Giordana nel film “Pasolini un delitto italiano”. Anche a me cronista per caso, sembrava tutto strano. Il ritrovamento di Pasolini che risale alle sei e trenta del mattino ma i primi giornalisti che arrivano quando il corpo è stato portato via da ore. La scena del delitto violata e inservibile.
Poi, Oriana, ha vissuto altre vite e altre opinioni. Chissà che cosa scriverebbe oggi?
La tesi dell’omicidio a sfondo sessuale, subito proclamata dagli inquirenti senza se e senza ma. Fu davvero un agguato fascista come disse Oriana Fallaci? Dopo tanti anni, l’ipotesi più realistica ma non dimostrabile in sede giudiziaria (“Io so. Ma non ho le prove”) collega l’eliminazione dell’intellettuale più odiato dai poteri marci che assediavano il Paese (la P2, le trame nere) a qualcosa di più oscuro e complesso di una lite con un marchettaro. In quell’epoca, dare la colpa ai fascisti era in fondo una semplificazione quasi apodittica. Per lei che allora era la compagna di Alexandros Panagulis, imprigionato e torturato dai colonnelli greci non era facile liberarsi dall’angoscia dell’uomo nero. Poi, Oriana, ha vissuto altre vite e altre opinioni. Chissà che cosa scriverebbe oggi?
Da Il Fatto Quotidiano del 19 ottobre 2015
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