Sembra tutto una folle corsa a 300 Km/h , tipo Indianapolis. Un altro caduto sul campo, un altro nome da incidere sull’entrata di uno stadio. Un’altra volta, tutta la tragedia minuto per minuto. Un’altra volta, lo stop al circo per creare silenzio, e le parole a fiumi per cercare di riempirlo, perché nessuno sa stare in silenzio. Piermario Morosini ci muore davanti agli occhi, e ci strappa striscioni e trombette di mano. Una lista plumbea che aggiunge un tassello quasi ogni anno, dal 2007 a questa parte. Antonio Puerta, Miklos Feher, Daniel Jarque, Fabrice Muamba (quest’ultimo riportato a vita terrena da un mezzo miracolo). In Spagna, in Portogallo, in Inghilterra, in Italia. L’interrail di una tragedia che pare divenire ordinaria, a farcire una crisi europea che sembra insinuarsi in ogni anfratto. L’Europa e il suo gioiello, quel calcio che si affanna nel proporre un avanspettacolo a cadenza forsennata, rincorrendo partita dopo partita, competizione dopo competizione.
Piermario muore, e ci consegna la sua esistenza in prime time. Muore giocando a calcio, muore sul lavoro. Un lavoro amato e remunerato, ma anche caduco, temporaneo e faticoso. Un lavoro che (come ogni cosa, ormai) impone velocità serrate, diete ipocaloriche, continua manutenzione di fisici bestiali, più simili a macchine che a qualcosa di umano.


Si può morire di calcio con un razzo in faccia sugli spalti come Paparelli, o di un malore improvviso in campo, come Piermario. Si può vivere di calcio trovando un universo dove mettersi in gioco e cercare un riscatto, dove mostrare il guanto di sfida contro il vento, come la triste storia del ragazzo bergamasco ci racconta.

Dunque, si potrebbe affermare senza paura che l’operaio ucciso dal crollo di un palco non ha poi così tante differenze col calciatore morto in campo. L’unica differenza è lo stacco dato dalla società, che ha il brutto vizio di dover sempre classificare e suddividere in base a criteri non umani. Quella stessa società che accomuna il calciatore e l’operaio nel ruolo di ingranaggi in processi giganteschi, nei quali il ruolo della manovalanza è convogliato verso una rappresentazione senza dignità.
Morosini è una figurina Panini, che paradossalmente comincia a vivere, perlomeno ai nostri occhi, nel momento in cui muore, esattamente come l’operaio che diventa Francesco Pinna soltanto quando rimane schiacciato dal palco di Jovanotti. Le vicende, come si può notare, non sono così dissimili, al di là di una superficiale visione.

L’importante è che «non si possa scrivere più di morte». Già, perché è difficile scrivere qualcosa sulla morte, difficile parlare e trovare il taglio giusto per discutere di una partita vista soltanto da chi non può raccontarci nulla. Difficilissimo provare a farne un redazionale, senza cadere in banalità. Più facile accorgersi che tra un defibrillatore e una moviola in campo, tra una medicina logicamente imperfetta e un abbonamento alla pay tv, l’umanità ogni tanto presenta il conto dovuto e millenario, sbattendoci in faccia la durezza dell’asfalto che, se preso a 300 km/h, fa parecchio male. Anche se, c’è da dire, nessuno ha intenzione di staccare il piede dall’acceleratore.
(Pubblicato sul “Fondo Magazine” del 16 aprile 2012)




