Magazine Musica

Pierre Boulez, 1925 – 2016

Creato il 06 gennaio 2016 da Gianguido Mussomeli @mozart200657
Foto ©dpaFoto ©dpa

“Die Musik, die die Leute heute hören, ist sehr körperbetont. Wir haben ja nun genug über Michael Jackson in letzter Zeit gesprochen. Aber schauen Sie sich dagegen Strawinskys “Le Sacre du Printemps” an. Das ist rhythmisch doch viel interessanter.”

– Pierre Boulez, da un’ intervista al Badische Zeitung – 2009

Pierre Boulez è morto martedì sera a Baden-Baden, città che il Maestro amava e che lo scorso anno ne aveva onorato il novantesimo compleanno con la concessione della cittadinaza onoraria e un ciclo di concerti durante il quale il pubblico del Festspielhaus gli aveva tributato grandi manifestazioni di affetto, che il musicista aveva purtroppo dovuto seguire su uno schermo televisivo in casa sua in quanto le sue già precarie condizioni di salute non gli avevano consentito di essere presente in sala. Se ne va uno dei protagonisti assoluti del mondo musicale novecentesco, sia come compositore tra i più geniali e innovativi del dopoguerra che come direttore d’ orchestra di assoluto valore, filosofo della musica, manager culturale, docente richiesto in tutto il mondo e fondatore nel 1969, su incarico del presidente Georges Pompidou, dell’ istituto di ricerca musicale associato all’ IRCAM, l’ Institut de Recherche et Coordination Acoustique/Musique, scuola di insegnamento artistico interdisciplinare per ospitare la quale venne costruito il CNAC (Centre national d’art et de culture Georges-Pompidou) su progetto di Renzo Piano, situato in Rue Beaubourg 19, tra i quartieri delle Halles e del Marais e inaugurato nel 1977.

Pierre Boulez e Andrew Gerzso all' IRCAM durante le prove di Répons. Foto ©Ralph FasseyPierre Boulez e Andrew Gerzso all’ IRCAM durante le prove per la prima esecuzione di Répons. Foto ©Ralph Fassey

Non è il caso di ribadire in questa occasione il posto fondamentale che le composizioni di Pierre Boulez occupano nella storia della musica contemporanea. Lavori come Notations, Le marteau sans maître, Répons, Éclat/Multiples e Rituel in Memoriam Maderna sono unanimemente considerati tra le partiture più geniali apparse negli ultimi decenni. Dopo essere stato allievo di Olivier Messiaen e di Andrée Vaurabourg, la moglie di Arthur Honegger, il giovane Boulez apprese la tecnica serialistica da René Leibowitz per poi abbandonarla divenendo una guida nell’ambiente artistico del dopoguerra, indirizzato verso una maggiore astrazione e sperimentazione i cui principi di base vennero sviluppati nei corsi Internationale Ferienkurse für Neue Musik tenuti a Darmstadt durante gli anni Cinquanta. Ma a questo punto leggiamo come il Maestro illustrava alcuni principi della sua filosofia compositiva in un’ intervista concessa nel 1979 durante il Festival Berg, ciclo di concerti e rappresentazioni operistiche organizzato dal Teatro alla Scala insieme al Théatre National Opéra de Paris nel corso del quale il Maestro fece conoscere al pubblico italiano la versione completa della Lulu nel formidabile allestimento scenico di Patrice Cheréau.

Lei ha sempre vissuto profondamente e con passione i momenti fondamentali e gli sviluppi della musica del nostro secolo. In che misura questi hanno inciso sul/nel sociale? Nella formazione ed emancipazione dell’ «uomo» dei nostri giorni?
È una domanda molto difficile cui rispondere. L’evoluzione della musica non è per forza parallela all’evoluzione sociale. Ciò che tuttavia si può senz’altro constatare è che la musica ha enormemente ampliato il suo campo d’azione, il pubblico; gli ascoltatori poi sono molto più numerosi rispetto al passato. Ma anche la musica contemporanea resta, malgrado tutto, legata ad un certo numero di persone che vogliono fare uno sforzo per seguire anche questo genere. Per quanto ci si voglia impegnare, e sia detto senza allarmismi, rimarrà sempre ristretto il numero di coloro che seguiranno veramente, con uno spirito che va al di là dell’ interesse, e ricco di maggior competenza. Il che non impedisce certo che le cose, più avanti, si estendano maggiormente e che, qualora raggiungessero un punto di diffusione sufficientemente grande, la musica contemporanea venga assorbita.
La crisi morale, culturale, di valori che la nostra società (o il nostro sistema sociale) sta vivendo (ci riferiamo all’ Italia e alle nuove generazioni, disgregazione intorno al privato, terrorismo, ecc.), come viene recepita o sentita dal «mondo musicale»?
Il «mondo musicale» risente delle stesse crisi degli altri ambienti, non è un mondo a sé, ci sono gli stessi riferimenti. E’ dunque certo che, anche qui, ci sia il timore del futuro, come sempre, e che questa paura del futuro si manifesti in diversi modi: conservatorismo nell’ insegnamento, conservatorismo nel repertorio, conservatorismo nella forma del concerto e conservatorismo persino in tutto ciò che è implicato nella cultura musicale. È evidente che esistono delle trasformazioni, ma queste trasformazioni sono molto lente e, in quanto molto lente, non si potrà parlare tanto di evoluzione. I programmi e la forma dei concerti si stanno evolvendo moltissimo e, probabilmente, in un certo numero di anni molte cose cambieranno. La nostra scuola musicale sembra vivere al di fuori «del resto del mondo», anche se con importanti eccezioni ancora non capaci di diventare forza trainante. L’ esperienza formativa del suo paese è diversa? Qual è? Quali sono gli elementi per una completa formazione del futuro musicista?
La situazione è la stessa anche in Francia. Certamente l’ambiente musicale è molto isolato dal resto. E un ambiente molto specializzato. E se si decide di analizzare in profondità un’ azione sulla società, giustamente bisogna vederla attraverso il proprio mestiere e per mezzo della forza di cui si è portatori. Altrimenti ci si comporta da dilettanti in primo luogo e, secondariamente, si agisce senza alcuna forza in quanto si è al di fuori della competenza personale d’azione. E io credo fermamente che la capacità d’azione dipenda essenzialmente dalla professionalità di cui si è capaci. Una domanda al compositore più che all’ organizzatore o al direttore d’orchestra. Non ritiene che per le nuove generazioni sia venuto a mancare un punto di riferimento quale è stato Darmstadt dei primi anni per lei e la sua generazione?
Certamente la situazione è cambiata ma non si è semplificata. La situazione non è mai semplice ma è certo che, dopo la guerra, molte cose erano migliorate in quanto l’anticultura, se così si può definire, che si era venuta a formare tra il ’32 e il ’45 aveva provocato un gran desiderio di rinnovamento e questo desiderio non doveva incontrare ostacoli di sorta. In quanto si era visto a che cosa l’ostacolo poteva condurre. Quindi, dal mio punto di vista, della mia generazione intendo, il terreno era molto «libero». Questa specie di visione globale ora non esiste; si ripresenterà probabilmente non tanto in occasione di un altro conflitto ma certamente in caso di crisi. Ritengo che le crisi permettano di avere una visione globale di una certa situazione mentre i periodi normali sono al contrario soggetti alla dispersione. E non si può certo dire di che crisi si possa trattare proprio perché, in quanto crisi, non la si può prevedere … E più specificatamente Darmstadt?
Darmstadt è stata soprattutto un’ esperienza internazionale. Quando sono arrivato a Darmstadt, cioè nel ’52 la prima volta, poi nel ’55, avevo già tutta una evoluzione musicale alle mie spalle, dal ’45 a Parigi. Per cui Darmstadt ha rappresentato molto di più di un’esperienza personale perché è stato un incontro di persone di diversi paesi. E’ stato probabilmente il primo incontro veramente internazionale che si è tenuto dopo la guerra. E, a mio parere, è questo un fatto molto importante, molto più del linguaggio musicale stesso. È il confronto di persone che nascono da orizzonti musicali «diversi», da paesi che erano stati tenuti a lungo isolati gli uni dagli altri, che si sono infine incontrati e ciò ha dato la possibilità di raggiungere dei punti mai esistiti prima di allora. Chi dice confronto dice giustamente esperienza comune, finalmente, e esperienza comune significa in gran parte un nuovo linguaggio.
Che cosa ha rappresentato per lei questa esperienza musicale milanese?
Ne ricavo un’ esperienza decisamente positiva, in tutti i sensi. So che Abbado ha fatto qui un grosso lavoro con la gente per cambiare i programmi. Non di meno Pollini. Esiste dunque una mentalità molto diversa da quello che avevo conosciuto venti, venticinque anni fa. Gli «animi» sono molto più aperti, più pronti, se si vuole, a ricevere la musica che si ascolta. Devo tuttavia riconoscere che il mio soggiorno a Milano non ha prodotto una musica attuale nel vero senso del termine. E’ una musica che appartiene al passato, benché si tratti di un passato recente. Ma se mi si presentasse ancora l’occasione, vorrei andare più lontano, proporre la musica di oggi. Può suggerire un modulo per avvicinare il pubblico non acculturalizzato alla musica contemporanea che viene solitamente definita estremamente ostica?
La gente bisogna andarla a prendere, è quanto noi in Francia facciamo, bisogna andarla a trovare, tenere sempre i contatti con comitati, enti … con chi organizza corsi o concerti …
Come interpreta la differenza di giudizio, spesso opposta, tra la critica e il pubblico?
Direi che è un fatto del tutto normale. È una situazione che esiste da sempre, non è per niente nuova. È chiaro, il pubblico ha un’opinione più generale, e non c’è un solo pubblico, ma tanti così come non c’è una critica ma i critici. Costoro hanno opinioni personali, si esprimono su organi di stampa diversi. Ritengo del tutto normale che nell’«esistenza», esistano degli opposti. Quali sono, secondo lei, le cause e a chi attribuire le responsabilità – oggettive e soggettive della suddivisione netta fra musica d’impegno, accademica, e musica di consumo?
La musica e anche «molte cose». C’è la musica che si può ascoltare, senza dover prestare troppa attenzione, una specie di sottofondo musicale e c’è anche la musica che, contrariamente, richiede concentrazione, attenzione, ascolto attivo che, tuttavia, non significa necessariamente entrare in profondità. Da parte mia non ritengo possibile un ascolto impegnato ventiquattrore su ventiquattro. Esistono quindi dei momenti che sono più adatti all’ ascolto passivo degli altri al contrario, nei quali ci si può concentrare. Del resto, nella stessa musica «seria», troviamo delle opere che richiedono più attenzione di altre … E un fenomeno che esiste anche nella letteratura, dove, per fare un esempio nella letteratura francese, ci sono poeti come Rimbaud o Mallarmé che sono sempre più difficili da leggersi che non Victor Hugo o la Sagan.

Articolo pubblicato su Laboratorio Musica (Anno I m.2/3, lug/ago 1979)

Veniamo adesso a ricordare il Boulez direttore d’ orchestra. Il Maestro iniziò a salire sul podio per guadagnarsi da vivere, su richiesta di Jean-Louis Barrault che nel 1946 gli affidò la direzione delle musiche di scena negli spettacoli della compagnia e, in occasione del settantesimo compleanno di Boulez, così ricordava il loro lavoro comune.

Travailler avec Boulez

Jean-Louis BarraultRésonance nº 8, mars 1995
Copyright © Ircam – Centre Georges-Pompidou 1995


A quelques jours du soixante-dixième anniversaire de Pierre Boulez, il nous a paru bienvenu d’ajouter au rapide album photographique des pages précédentes, le témoignage que Jean-Louis Barrault écrivit en 1953 sur le jeune musicien qui, depuis 1946, était le directeur musical de sa compagnie. Barrault grâce à l’appui duquel Boulez fonda l’année suivante les Concerts du Petit Marigny, précurseurs immédiats du célèbre Domaine Musical. Souvent cité, repris partiellement ici ou là, ce texte plein de vie et de chaleur est reproduit ici dans son intégralité.

Cela va bientôt faire huit ans qu’avec Pierre Boulez nous partageons la même vie; dès la fondation de notre Compagnie. Nous devions débuter avec Hamlet, traduit par André Gide, et mon grand et cher ami Honegger avait, une fois de plus, accepté de nous donner un coup d’épaule en composant la musique de scène.

Pour des raisons pratiques, notre « orchestre » se composait ainsi : des cuivres que nous avions enregistrés ; un vrai « martenot » et une vraie batterie disposés en coulisse. La formule est d’ailleurs efficace : l’enregistrement donnait le volume, le « martenot » et la batterie, jouant en synchronisme avec l’enregistrement, apportaient de la vie, de l’ authenticité, enlevaient le côté mort du haut-parleur et les grattements des disques.

Pour le « martenot », il nous fallait un ondiste. Honegger nous présenta un de ses élèves, élève aussi de Mme Honegger : le jeune Pierre Boulez. Sujet remarquable, disait-il, jeune compositeur plein d’espoir.

Boulez arriva avec ses vingt ans. Il nous plus immédiatement. Hérissé et charmant comme un jeune chat, il dissimulait mal un tempérament sauvage très plaisant. Il gagna l’estime de nos camarades. Entre lui et nous, il y avait « l’atome crochu ». Nous nous reconnaissions. Nous étions du même sang. Il se révélait « de la famille ». De cette famille d’élection qu’est une Compagnie.

Je lui confiai donc, assez pompeusement, le département de la Musique. Libre et responsable.

A cette époque, il vivait « toutes griffes dehors », « à l’ écorché ». Il n’ épargnait personne, ou presque. Il était mordant, agressif, irritant parfois ; sa peau devait lui faire mal. Quand on a à s’accoucher soi-même (c’est le sort de l’ artiste), il est normal que l’ on ressente à la fois les cris de frayeurs de l’ enfant et les douleurs de la mère.

Mais derrière cette sauvagerie anarchiste, nous sentions dans Boulez la pudeur extrême d’ un tempérament rare, une sensibilité à fleur de peau, voire une sentimentalité secrète.

Je n’ ai reçu malheureusement aucune éducation musicale, mais la musique me fait vibrer le corps. C’est sans doute parce que l’ on est constamment « électrisé » de musique et de rythmes que j’ ai tant de mal, quand je joue, à rester tranquille ; eh bien, chaque fois que j’ ai entendu de la musique écrite par Boulez, j’ ai ressenti des poussées violentes, des jaillissements passionnés, des éclatements lyriques, subitement retenus, retenus par une pudeur extrême, une chasteté merveilleuse. Cette chasteté masculine, qui existe plus qu’ on ne croit chez les hommes et qui, précisément, est un signe de virilité.

Dès ces premiers contacts, nous devinions bien que se tapissait dans Boulez le drame rare de l’ éclosion. Il était habité, possédé. Ses attaques, souvent sanglantes, étaient des défenses. Nous le sentions bien et nous l’en aimions davantage.

C’est passionnant de suivre l’évolution d’un jeune homme de cette qualité. Il a deux âges. Aux côtés de l’enfant qu’il est encore, et qui a le devoir de le demeurer longtemps, vit une sorte d’ être sans âge qui serait comme la suite enrichie d’existences antérieures.

Parfois, il se comporte d’ une façon telle qu’ on a envie de l’ aider, de le protéger, puis tout à coup, il riposte en lançant une réplique anormalement solide qui intimide.

Boulez vivait selon ces deux personnages. Que de moments nous avons passés à éclater de rire en démolissant la terre entière, en jurant, en nous indignant gratuitement, en nous chamaillant comme des animaux qui jouent. En revanche, que de moments recueillis, sérieux, dociles, timides, attentifs nous avons partagés dans le travail…

En sept ans, nous avons eu la joie d’assister à sa métamorphose. Ses deux personnages se sont rejoints ; il a trouvé son unité. Ce jeune chat, qui jouait parfois à la panthère enragée, est devenu l’ homme que nous pressentions, sans rien perdre de sa virulence.

Comme chef, Boulez a acquis une autorité à la fois naturelle et efficace. Son dévouement, sa patience nous étonnent tous. Il nous ânonne des heures entières les mêmes phrases musicales. Pour Christophe Colomb, notamment, il aurait pu donner l’exemple à n’importe quel maître de chapelle aux prises avec une bande de gamins.

Comme compositeur, enfin, chacun sait aujourd’ hui qu’il a fait des pas de géant.

Malgré sa fidélité touchante à notre Compagnie, malgré tous les voyages que nous lui faisons faire, toutes les répétitions, souvent fastidieuses, que nous lui imposons, il s’ est mis à réaliser.

Il compose la nuit. Il écrit de longues études. Très savantes. Il est devenu l’ un des principaux représentants de l’ école moderne internationale. Il est joué à l’ étranger, sifflé en France : ce qui me paraît de bon augure pour un vrai musicien. Il est connu et attendu à New York. Lors de notre dernière tournée en Amérique du Nord, il fut reçu comme le jeune maître moderne de l’ école française ; le grand critique Virgil Thomson, très courtoisement, le présenta. Boulez donna des conférences, participa à des concerts; il eut des entretiens suivis avec les jeunes compositeurs et virtuoses américains.

Bref, à présent, il marche. Il n’ a plus le temps de tuer les autres, ni sans doute l’ envie, puisqu’ il existe.

Quand Simone Volterra accepta de construire ce « Petit Théâtre » qui, je l’espère, va nous permettre de travailler utilement, il nous sembla que nous devions consacrer à la musique moderne une part de notre activité. La situation de la musique moderne nous paraît, en France, moins bien définie que dans certains pays que nous visitons, tels que l’ Allemagne et l’ Amérique. Nous avons donc confié à Boulez le soin d’ organiser, pour cette saison, quatre concerts de musique de chambre.

Ainsi, ce jeune homme que j’avais bombardé, un peut gratuitement il faut le dire, notre chef de musique, a enfin l’ occasion de justifier, dans le sens le plus complet, ce poste. C’ est une très grande joie pour nous de lui offrir cette occasion.

Dans l’ organisation de ces concerts, il est, comme toujours, entièrement libre et responsable. C’ est son affaire. Nous sommes derrière lui simplement pour l’ aider, trop heureux si nous sentons que nous avons favorisé son éclosion et servi par son truchement, modestement, la musique moderne.

De plus, nous avons pu, grâce à René Julliard, lui fournir l’ occasion de rédiger ce Cahier Musical, au sein même des Cahiers de notre Compagnie.

Ce sera un des Cahiers dont nous serons particulièrement fiers.

Je laisse à présent la parole à notre ami Boulez, avec qui, après huit ans de vie commune, nous somme liés désormais, comme on dit : « A la vie, à la mort ! »

Boulez non vestiva il frac nè adoperava la bacchetta, ritenendo in questo modo di poter esprimere meglio le sue intenzioni esecutive.  Il suo stile interpretativo si basava sostanzialmente sui principi di trasparenza orchestrale e sobrietà di fraseggio da lui appresi frequentando le lezioni di Roger Désormiere, il grande direttore allievo di Vincent d’ Indy e Charles Koechlin che fu stretto collaboratore di Erik Satie e principale divulgatore della musica contemporanea nella Parigi dell’ anteguerra. Tra le tante occasioni in cui ho avuto la fortuna di ascoltare Pierre Boulez in concerto, l’ impressione più forte da me riportata fu quella di un’ esecuzione del Sacre du printemps con la BBC Symphony Orchestra che udii a Ferrara negli anni Novanta. Ascoltiamo l’ interpretazione del Maestro in questa registrazione del 1963 con l’ Orchestre National de l’ O.R.T.F.

Boulez è stato senza dubbio, insieme a Igor Markevitch, il massimo interprete del capolavoro di Strawinsky. Il suo dominio assoluto della partitura in tutti i minimi particolari, la sua capacità pressochè unica di padroneggiarne le strutture ritmiche e di evidenziare i dettagli della scrittura rendono le sue registrazioni di questo brano dei modelli assoluti di riferimento.

Come secondo ascolto di questo post commemorativo ascoltiamo un saggio delle celebri interpretazioni wagneriane del Maestro. Si tratta del Preludio dal Tristan und Isolde, in un’ esecuzione del 2003 con la Gustav Mahler Jugendorchester.

Per le sue storiche produzioni del Ring e del Parsifal a Bayreuth, il direttore francese si è conquistato di diritto un posto tra i massimi interpreti di Wagner nella nostra epoca. La sottigliezza e l’ analiticità del suo fraseggio, che il Maestro dichiarava di aver sviluppato ascoltando le esecuzioni viennesi di Herbert von Karajan, consentono all’ ascoltatore di apprezzare come in pochi altri casi la complessa struttura motivica della musica wagneriana e di comprenderne tutte le relazioni strutturali. Per quanto riguarda il resto della cospicua discografia che documenta molto bene l’ arte sublime del direttore francese, direi che tutte le incisioni di brani del Novecento storico sono da raccomandare caldamente insieme al suo ciclo mahleriano, pubblicato nella sua integrità un paio d’ anni fa dalla DG. Naturalmente un posto d’ onore spetta ai suoi cicli sinfonici di Debussy e Ravel, più volte registrati dal Maestro e facilmente reperibili. Come terzo ascolto, propongo appunto un saggio di quel Debussy di cui Boulez era interprete sommo. Si tratta di un’ esecuzione de La Mer con la New York Philharmonic, complesso di cui il maestro francese fu Music Director dal 1971 al 1978 come successore di Leonard Bernstein, ripresa alla Avery Fishery Hall nel 1992 durante un concerto celebrativo per il centocinquantesimo anniversario della fondazione del sodalizio.

Voglio chiudere questo post celebrativo citando il comunicato stampa apparso questa mattina sul sito della Philharmonie de Paris.

C’est avec une très grande tristesse que la famille et les proches de Pierre Boulez font part de sa disparition, survenue le 5 janvier 2016 au soir à Baden-Baden (Allemagne).

Pour tous ceux qui l’ ont côtoyé et qui ont pu apprécier son énergie créatrice, son exigence artistique, sa disponibilité et sa générosité, sa présence restera vive et intense.

Con la sua arte compositiva e direttoriale Pierre Boulez ci ha lasciato in eredità un messaggio fatto di speranze e di aspirazioni al rinnovamento. Come diceva René Char, il grande poeta surrealista che fu uno dei suoi migliori amici e la cui raccolta di poesie Le Marteau sans maître ispirò al Maestro una delle sue composizioni più celebri:

Un poète doit laisser des traces de son passage, non des preuves. Seules les traces font rêver

Merci beaucoup et à bientôt, Maestro Boulez!



Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog