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Pietà

Creato il 17 settembre 2012 da Eraserhead
PietàIl nuovo corso kimmiano abbandona quella componente poetica che in passato ci aveva fatto brillare gli occhi in favore di una brutalità tanto scarna quanto cruda fatta di schiaffi, pugni, intimidazioni, parolacce e chi(m) più ne ha più ne metta. Ma chi conosce la carriera di Kim sa che già al tempo degli esordi amava andarci giù pesante con le maniere forti (ricordiamo come esempio uno dei suoi film meno riusciti, se non proprio il più “brutto” in assoluto: Wild Animals, 1997) [1], per cui la rinascita – e un Leone d'Oro è, almeno sulla carta, un sigillo d’approvazione insindacabile – passa direttamente per il suo stesso cinema; sicché il coreano, scansate le piroette liriche, opta per un approccio molto realistico dove la sopraffazione regna incontrastata (se vogliamo vedere una vera novità la possiamo trovare qui: basta porte invisibili che si aprono su laghetti incontaminati e basta barconi-utero in mezzo al mare, in tempo di crisi anche l’Immagine diviene gretta come la realtà, i sogni non esistono [infatti si vedrà il protagonista agitarsi nel sonno e non ciò che sogna] e tutto precipita in inferni quasi tsukamotiani).Ma andiamo, aldilà di questioni del genere quello che più preme ad ogni cinefilo è sapere se, a fronte di un tale “cambiamento”, Kim Ki-duk è tornato ad essere Autore come ai tempi di Ferro 3 (2004). La semi-immortalità della speranza legittima sempre i migliori auspici, anche quando si è stati testimoni di una serie di cadute fragorose, segnali allarmanti di una afasia artistica che, come ben saprete, è culminata con Dream (2008). Il problema serio è che anche il film del riscatto, Arirang (2011), si è dimostrato poca cosa, e di conseguenza la risposta non può che essere no, quel Kim probabilmente non tornerà mai più, accogliamo perciò il nuovo augurandoci che le note positive del film sotto esame vengano in futuro implementate.
Perché Pietà (2012) un paio di frecce al suo arco le ha, e le sfodera tutte nei trenta quaranta minuti finali, ovvero dal momento in cui gli ingranaggi vengono rivelati; prima si va un po’ a singhiozzo: quella che lo stesso Kim ha definito critica al “capitalismo estremo” traslata nelle cronache di uno strozzino non attecchisce, si dimostra scoperta fin dall’inizio e nel cuore poco kimkidukkiana. Da tale angolazione quanto viene narrato, sebbene pregno di atrocità, non sorprende granché, è una pièce spersonale a cui manca una firma in calce, non ci voleva questo Kim per mostrare l’impasse del ceto medio e la dilagante ascensione del dio denaro. Ridateci il Ki-duk spirituale, animista, simbolista, perché nella radiografia della società qui si scade nell’anonimato. Di contro l’analisi della dimensione umana è connotata in modo più profondo: flirta con la religione (anche se il regista ha parzialmente smentito i rimandi al cattolicesimo) ed insiste sui legami consanguinei disegnando un quadro generale brulicante di binomi madre-figlio (due i momenti alti: il coltello nel petto, e la tomba); laddove la povertà materiale prevale, Kim ci mostra le nicchie amorevoli che sopravvivono, e, aspetto più redditizio nell’economia del film, inscena la riabilitazione di un demonio attraverso l’affetto materno certificato dalle ultime battute in cui lui implora di morire al posto di lei. Ovviamente l’elaborato meccanismo di vendetta che ricorda le dolorose stilettate del connazionale Park Chan-wook ci mette del suo nell’ingemmare il rapporto tra i due protagonisti e a moltiplicare le possibili interpretazioni del titolo, perché se è vero che la donna, nel suo percorso, giunge ad un passo dalla morte con il dispiacere nell’anima nei confronti dell’aguzzino, e anche vero che quest’ultimo, con il suo terribile gesto conclusivo, compartecipa a tale dolore dopo averlo sentito bruciare, per la prima volta, sulla propria pelle. Forse la vera pietà sta tutta in quella scia di sangue che è sacrificio, quasi un invocante perdono, dell’Uomo affranto dai suoi peccati, adesso riconosciuti dal tribunale di se stessi e rimessi a quello che sta più in alto di tutto e tutti.
Dopodiché un canto lontano risuona: Kyrie eleison, Signore pietà.______
[1] E comunque tutto il cinema di Kim, anche nei suoi episodi più elevati, è sempre stato scosso da angherie sì e no manifeste. Il che sta ad indicare di come il regista non abbia fatto altro che intensificare un aspetto del suo credo autoriale presente dai tempi di Crocodile (1996).

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