Quando i sanculotti persero la pazienza.
Un giorno gli storici si volteranno indietro e tutto sarà chiaro. I primi anni del ventunesimo secolo furono quelli preparatori alla grande rivoluzione italiana, quelli in cui il crollo delle illusioni fece spazio a una sorda rabbia che infine sfociò nel rovesciamento dell’ordine costituito. Proprio come nella Francia del 1789.
La storia è sempre fonte di divertenti accostamenti. L’Italia del 2012 come la Francia prerivoluzionaria? Il re e i nobili che davano feste a Versailles a spese del Terzo Stato sono come i politici italiani arroccati in Parlamento per salvare i rimborsi elettorali? La presa (futura) di Montecitorio come la presa della Bastiglia? Certo, il settecento francese aveva Voltaire, Diderot, Montesquieu, l’Enciclopedia. I lumi nella penisola italica, se mai si sono accesi, adesso sono spenti. A chi ci rivolgiamo oggi? A Scalfari, chiuso nella sua torre di sogni? A Barucco? E, comunque, il terzo stato italiano non ama leggere.
Due paesi in crisi finanziaria. La Francia di fine settecento soffriva a causa di una monarchia assoluta quanto assente, di un’evasione fiscale garantita per legge, che esentava nobili e clero dal pagamento delle imposte. Mentre i nobili improduttivi ballavano a Versailles gustando la “doucer de vivre”, la borghesia commerciale e industriale ribolliva, nutrita dai saggi filosofici dell’illuminismo e dalle pericolose idee di uguaglianza e libertà venute dalla giovanissima repubblica americana. Le energie vitali del Terzo stato erano bloccate dalla disuguaglianze tra le persone, dalle tasse, dalla mancanza di regole uniformi, dall’impossibilità di toccare le grandi proprietà appartenenti alla nobiltà e al clero.
Due imprenditori moderni.
Non vi ricorda l’Italia? Un paese, un tempo dinamico ed energetico, negli ultimi vent’anni è stato sistematicamente soffocato in ogni speranza di cambiamento: la crescita dei privilegi, le crescenti disuguaglianze. Un’economia arcaica e inefficiente, che sta andando indietro, incapace di innovazioni e di impiegare le sue migliori risorse che emigrano o sono condannate a un perpetuo precariato. Un sistema politico chiuso su se stesso, dominato dall’autoreferenzialità. Un parlamento sconnesso dalla realtà sociale che ha smesso di essere la cinghia di trasmissione delle istanze dei cittadini. In questo ambiente grigio e soffocante, le disuguaglianze si incancreniscono, le barriere sociali si fossilizzano, fino a creare ceti scollegati l’uno dall’altro, vere e proprie caste con scarsissima comunicazione reciproca e limitata mobilità.
Un paese arcaico anche socialmente. Alla base della società italiana dell’Ancien Régime c’è, infatti, il “titolo”, che riassume in sé quasi una dimensione esistenziale. Il titolo è il posto fisso, la consulenza in un gabinetto ministeriale, l’incarico in una società pubblica, oppure in un sindacato o in una banca. E’ una rendita di posizione che garantisce l’agiatezza e che, ottenuto più spesso per natalità e amicizie influenti che per merito, introduce nei circoli più elevati della società italiana, in quella sorta di nobiltà chiusa e improduttiva, dove la prima regola è non scuotere lo status quo. Vi troviamo politici, sindacalisti, grandi commis dello stato, banchieri, professionisti, giornalisti. Il titolo stabilisce distanze (dirigenti ed impiegati; laureati e ignoranti) ma crea anche consonanze (tra l’onorevole e il dirigente statale, tra l’imprenditore e il banchiere). Una vera e propria classe nobiliare con precise caratteristiche di consumo (l’auto tedesca, l’appartamento in zona residenziale, la vacanza esotica), vestiario (l’eleganza e l’apparenza), abitudini, linguaggio e comportamento in pubblico. Si tratta di un ceto fondamentalmente improduttivo e irresponsabile, in cui non mancano i grandi industriali (dove sono gli investimenti promessi, Marchionne?)
Questo è status.
Il titolo definisce chi è dentro e chi è fuori della società italiana. Separa il primo stato nobile dal terzo stato privo di rendite, che è costretto a barcamenarsi con i contratti a progetto. Il terzo stato guarda al ceto nobile con desiderio, invidia e rabbia. Ne vorrebbe imitare lo stile di vita, comoda e spensierata, pur non avendone i mezzi né le conoscenze giuste.
Tra i titolati ma in posizione fortemente subordinata, troviamo i lavoratori pubblici le cui garanzie a vita li distinguono da qualsiasi lavoratore precario del terzo stato. Essi dipendono però dai vertici sociali per mantenere i sempre più risicati privilegi e insieme ad essi formano un potentissimo blocco sociale che impedisce ogni cambiamento.
L’ordine sociale italiano promana da una sorta di diritto divino, benedetto dalla religione. Garante del sistema è un’ideologia semplice ed efficace, arcaica e sempre pronta ad adattarsi alle nuove esigenze: quella del benessere della famiglia. Ad ogni costo. Il familismo amorale nutre la società italiana come una tossina. Si fa tutto per la famiglia. La famiglia, soffocante, oppressiva squilibrata in sfavore delle donne, è l’unica struttura solida in un mondo alieno e pericoloso.
La famiglia così costituita non potrebbe sopravvivere senza il cemento ideologico fornito da un cattolicesimo ridotto a uno scheletro di forme, privo di carità cristiana se non quella di una beneficenza un po’ pelosa, che si sostanzia nelle celebrazioni familiari (battesimo, prima comunione, cresima e matrimonio) in cui il prestigio può essere ostentato di fronte a tutti.
Il cardinal Bertone misura l'8 per mille.
La chiesa cattolica recita un ruolo insostituibile nella conversazione delle gerarchie e della disuguaglianza. Come nella monarchia borbonica, anche in Italia il secondo stato è il clero cattolico. Si tratta di poche decine di migliaia di persone (i sacerdoti sono circa 22mila), che godono di incredibili privilegi, di cui l’8 per mille dell’IRPEF rappresenta forse l’elemento più scandaloso, senza parlare delle esenzioni fiscali per un grande numero delle sue attività, anche di natura commerciale, come le scuole. Difficile capire quali e quanti servizi sociali il secondo ordine fornisca in cambio dei consistenti trasferimenti di fondi pubblici: la scuola privata cattolica è a pagamento, spesso indirettamente finanziata dagli enti pubblici. Forse l’unico verso servizio è la carità, anche se non completamente priva di contributi pubblici. Il resto è la realizzazione di servizi sociali (battesimi, matrimoni, comunioni) che rappresentano, come si diceva prima, meccanismi di riproduzione e ostentazione dello status, più che di adesione convinta alla fede.
In un paese in cui i cattolici non sono più maggioranza e in cui gli stessi cattolici hanno comportamenti disobbedienti rispetto ai precetti morali della chiesa, il secondo ordine riesce a mantenere una profonda influenza sulla vita sociale e politica, e nonostante la condotta scandalosa e il lassismo morale di alcuni dei suoi alti prelati (Bertone, Sepe, Fisichella), e nonostante le critiche sempre più forti provenienti da quella parte del basso clero, più sensibile ai problemi sociali. Molti sacerdoti vivono in situazioni di marginalità e di grave disagio sociale, realizzando una preziosa attività, in nome di un autentico spirito cristiano.
San Precario, più invocato di padre Pio.
Il terzo stato è costituito da quella crescente parte della società italiana esclusa dai benefici del possesso di un titolo. Si tratta di lavoratori privati, agricoltori, piccoli imprenditori, piccoli professionisti, giovani, studenti e l’esercito dei precari e dei disoccupati. E’ un ceto disomogeneo con alcune caratteristiche comuni: l’assenza di protezioni, il senso di alienazione, l’insicurezza. Gente priva di certezze politiche e anche morali, in quanto vittime di uno stato perenne di precarietà esistenziale, in posizione di subordinazione rispetto ai due ceti dominanti, a cui chiede protezione e prebende, strappando piccole concessioni che ne garantiscono la sopravvivenza stentata. Invece di battersi per rivendicare ciò che spetterebbe ad esso di diritto, l’uguaglianza delle opportunità, una seria riforma fiscale, il primato del merito.
Le divisioni del terzo stato ne hanno minato la capacità rivendicativa. Di volta in volta si è rivolto alle più diverse formazioni politiche, ricevendo in ogni caso mortificanti delusioni. Il ceto dominante ed improduttivo non è più in grado di assicurare nulla al terzo stato. Le occasioni di clientelismo sono sempre più ridotte, riservate in primo luogo al cerchio magico dei propri familiari e degli amici più stretti. Le minime opportunità di mobilità sociale, già scarse in Italia, si esauriscono. La scuola non garantisce più l’uguaglianza delle opportunità, anzi i nobili improduttivi vogliono che lo stato finanzi le scuole private (cattoliche) dove i loro rampolli potranno crescere separati dal resto del paese. I migliori cervelli emigrano, non trovando spazio in un mondo dominato dai figli dei baroni. Le aziende produttive chiudono. L’innovazione arranca. L’Italia arretra.
I ceti dominanti si trovano in difficoltà anche a mantenere il proprio benessere e si chiudono ancora di più in loro stessi. Non accettano riforme dei propri privilegi, sostenuti dalla forza dei clienti (sindacalisti, giornalisti, professionisti, conferenza episcopale, eccetera). Accettano solo le riforme che ricadono sul terzo stato, i tagli ai servizi sociali, la modifica dell’art. 18 (che però non deve toccare i dipendenti pubblici, a cui anzi oggi vengono tolti anche quei minimi meccanismi di valutazione creati dalla Brunetta), le pensioni, l’aumento delle accise, dell’IVA (imposta regressiva) e adesso l’IMU. Tutto doveroso per salvare l’Italia dallo spettro greco.
Quando i sanculotti italiani perderanno la pazienza.
Oppure per salvare i privilegi della casta? Monti è il moderno Necker. E’ pieno di buone intenzioni ma possiede neppure la forza di tagliare i privilegi dei tassisti. Figurarsi ridurre la forza degli avvocati, il nepotismo dei professori universitari, i privilegi dei politici, le oscene pratiche delle banche e delle grandi società petrolifere.
I ceti dominanti italiani stanno distruggendo l’intero patrimonio economico e sociale costruito nel dopoguerra per salvare il proprio modo di vivere, proprio come i nobili francesi del 1789, che non vollero rinunciare alla “doucer de vivre”. Le rivoluzioni (sia di destra che di sinistra) nascono in genere quando la classe media vede minacciato il benessere faticosamente conquistato. La prossima rivoluzione italiana potrà conoscere vari sbocchi, sia verso destra che verso sinistra. Non dovrà essere violenta. Basta un voto. Molti cercheranno di guidarla. Le classi dominanti faranno di tutto per bloccarla, come già hanno fatto in passato.
Ci sono già tutti i motivi per un cambiamento radicale. Gli storici non dovranno impazzire a cercare le cause. Semmai, una domanda agiterà gli storici del futuro: perché non è avvenuta prima?