Presentato nella sezione Giornate degli autori della 69ma Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, Pinocchio, film d’animazione diretto da Enzo d’Alò, su disegni di Lorenzo Mattotti e con le musiche di Lucio Dalla, risulta un’opera certo pregevole da un punto di vista essenzialmente tecnico e visivo, ma una volta concluso lo scorrere dei titoli di coda ed accese le luci in sala, mi ha lasciato in bocca l’amaro sapore di qualcosa d’incompiuto.
La mia impressione è stata quella di una visione sicuramente capace d’incantare gli adulti non accompagnati da minore e i più piccini, ma che non riesce a suscitare un costante fluire emotivo, vivido e pulsante, lungo l’intero arco narrativo, esternandolo solo a tratti, in singole sequenze.
Vengono messi da parte gli aspetti più pauperistici e tetri e si punta soprattutto sulla giocosità irruente propria dell’essere bambino, per quanto di legno, essenzializzandone i vari stadi evolutivi, che nel romanzo prevedono fame, miseria, cattiveria umana, sofferenza, interventi salvifici da morte temporanea per poter rinascere a nuova vita “adulta”. Nell’ approntare la sceneggiatura, d’Alò e Umberto Marino si sono concentrati in particolar modo sul rapporto padre-figlio, come evidenziato dal bellissimo prologo, dove vediamo Geppetto bambino intento a far volare un aquilone che perderà per poi ritrovarlo, fil rouge tra ciò che si è stati, quel che si è ora e ciò che si sarebbe voluto essere, proprio la magica notte in cui darà vita al suo figliolo, scolpendolo da un ciocco di legno. Più che un desiderio di paternità, il bambino che non ha mai avuto, il buon falegname sembra ora esternare la volontà di far rivivere il fanciullo che era un tempo, affidando a Pinocchio tutti quei sogni che non è riuscito a mettere in atto. Ma questi, da buon bimbetto appena venuto al mondo, non può fare a meno d’essere distratto da tutto ciò che il creato può offrirgli, nell’incoscienza di una gioiosa libertà affrontata con quell’ingenuità propria del suo essere e chi se ne frega, tra l’altro, degli avvertimenti di quel grillaccio del malaugurio … Meglio una corsa a perdifiato tra campi e colline che stare seduto fra i banchi di scuola, l’abbecedario comprato dal “babbo babbino” vendendo la propria giacca val bene un biglietto per il teatro dei burattini dell’illustrissimo Sig. Mangiafoco e poi vuoi mettere i saggi consigli di due veri amici come Gatto e Volpe … Meno male che a farlo tornare sulla retta via, ma giusto per un attimo, vi è la buona Fatina, rappresentata come una coetanea di Pinocchio, fedelmente al romanzo (“… una bella bambina, coi capelli turchini e il viso bianco come un’immagine di cera..”, la prima apparizione, cap. XV), l’intervento soprannaturale a misura di fanciullo, atto a fargli comprendere l’importanza di un suo ravvedimento. Il resto della storia, cari lettori, è certo cosa nota, mi soffermo quindi sul fascino espresso dai bei fondali color pastello, che illustrano un paesaggio toscano nei suoi tratti essenziali, o sull’inedita caratterizzazione, anche grafica, dei vari personaggi, emotivamente catturato dalla forza espressiva di alcune sequenze (il rogo intorno all’albero dove si è rifugiato Pinocchio inseguito dagli assassini, il vortice musicale e visivo che accompagna il consulto tecnico di Civetta, Grillo Parlante e Corvo, i tre medici stretti intorno al capezzale del burattino, o la visione lisergica, da buona accoglienza formale, dell’Isola dei Balocchi, paradiso solo in superficie) e un po’ meno da quella di altre (una su tutte, il sogno attraverso il quale la birba matricolata visualizza la morte della Fata, a mio avviso non così coinvolgente come quel “rivivisci” espresso tra le lacrime nella pagina scritta). Tutta da gustare, poi, l’apparizione del Pescatore Verde doppiato da Dalla, che, come già scritto, ha firmato la colonna sonora, connotandola del suo eclettismo, capace di conferire omogeneità non solo a diversi generi musicali (Rossini, assolo di clarinetto, rock, jazz, hip hop), ma all’intera narrazione. Evidenti poi, qua e là, richiami al capolavoro di Luigi Comencini del ’72 (l’inquadratura dall’interno verso l’esterno, attraverso le fauci del pescecane, che- ricordate?- di notte dorme a bocca spalancata per problemi legati all’età, asma e palpitazione), per cui, in definitiva, ciò di cui ho avvertito la mancanza è una maggiore organicità complessiva, perché questo Pinocchio visionario, pittorico, psichedelico, a tratti poetico, fa stropicciare gli occhi ma non sempre arriva dritto al cuore, in bilico tra commozione sincera e senso di meraviglia, senza riuscire a fonderle compiutamente, nel senso concreto della “bella fiaba”, pur nel sostanziale rispetto della morale di fondo.
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Un accenno al riuscito doppiaggio, con le voci dei principali personaggi: Gabriele Caprio (Pinocchio), Mino Caprio (Geppetto), Rocco Papaleo (Mangiafoco), Paolo Ruffini (Lucignolo), Maurizio Micheli (Il Gatto), Maricla Affatato (La Volpe), Lucio Dalla (il Pescatore Verde), Pino Quartullo (Carabiniere), Andy Luotto (oste).