In questa disputa politica surreale di fine estate, Benigni si muove con la leggerezza di un cartone animato che ha studiato abbastanza per diffidare dei fanatici ma in fondo anche per compatirli. Grillo invece ha smarrito la levità corrosiva degli esordi, sostituendola con una maschera soffocante di livore. Il suo brontolio cupo e monocorde gli permetterà di raccogliere voti fra le macerie di un’Italia disperata, ma gli ha sottratto quell’energia positiva che sola consente di rimettere insieme le persone e le cose. Di ricostruire. Se Benigni è Pinocchio, e ne condivide le ingenuità e le furbizie, i fallimenti e le rimonte, Grillo non è il Grillo Parlante ma un Gabibbo barbuto che si è spogliato dell’autoironia per indossare i paramenti del vescovo della Rete. Sprezzante, assertivo, inutilmente volgare, unico illuminato in un mondo di anime perse e oscuri complotti. Ciò detto, lo considero innocente. Da una vita recita testi non suoi. Il dramma è che da troppo tempo a scriverglieli non sono più Antonio Ricci e Michele Serra, ma Casaleggio, il guru di Cinque Stelle. Uno che basta guardarlo in foto una volta per averne paura per sempre.
Se poi salta fuori che Grillo si fa pagare in nero... si capisce che siamo alla solita solfa berlusconiana: ti sfanculo, mi accusi, ti denuncio anche se hai ragione...