Piovono imbroglioni

Creato il 31 gennaio 2014 da Albertocapece

Anna Lombroso per il Simplicissimus

Non si ha nemmeno più voglia di dire piove governo ladro, tanta è la disincantata assuefazione alle catastrofi e tanto ci si immagina la risposta di Letta che dà la colpa a Monti che dà la colpa a Berlusconi e su su fino a Romolo Augustolo.

Roma affoga, il sindaco “marziano” deve essere tornato nel pianeta di origine, forse temendo il test della neve, incurante di quello di una pioggia prevista e annunciata. Il sistema che combina finanza e politica caccia il lavoro e i lavoratori dalle fabbriche, considerandoli inutili merci in un modo che non può più permettersi di consumare, le risorse e il territorio talmente invece consumati da essere abusati esigerebbero lavoro e lavoratori per la loro tutela e messa in sicurezza. Ci sarebbero tombini e canali da ripulire, argini da ripristinare, torrenti bloccati da discariche estemporanee da indirizzare nel loro letto, alberi da potare, treni da rimuovere. Ma i sindaci, quelli che si sentono nuovi protagonisti della nuova politica e che non riescono nemmeno a replicare modi e autorità dei vecchi podestà fascisti, ripetono a livello territoriale le scelte dei governi. Operano per tagli, penalizzano i cittadini, ridotti a fastidiosi postulanti da reprimere con una pedagogia punitiva, ripetono le stesse impunite menzogne, distraggono con gli stessi illusionismi, così Roma, Venezia, Firenze, Napoli, Palermo e tutte le città d’arte e di gente e di storia, sono come Pompei che casca a pezzi in attesa di diventare una smart city perché non c’è la semplice, cocciuta, necessaria manutenzione e non c’è perché via via che cascano a pezzi diventano sempre di più merci da mettere in liquidazione, a beneficio di affini, contigui, padroni, soci.

Piove sul bagnato, mentre paesi smottano, città si allagano, i trasporti pubblici falliscono, piovono risorse sulle banche grazie a uno di quegli accorgimenti occulti, spacciati per una generosa misura, il Ministro Lupi che non impone a Trenitalia di rispettare i suoi obblighi nei confronti dei viaggiatori, redige un piano degli aeroporti con le bandierine sullo stivale in modo da accontentare collegi elettorali più o meno suini, individuando scali strategici con un potenziale inferiore a Piovarolo, si riserva leale rispetto degli impegni ai pataccari degli F35, si fanno ponti d’oro al nemico dei lavoratori che fugge col malloppo, benedicendolo per giunta, si spargono velenose bugie come se lo stato sociale fosse un sistema al servizio di una consuetudine parassitaria, come se le pensioni non fossero salario differito, bensì elargizioni di uno stato assistenzialista e sprecone, come se paesaggio e beni culturali non fossero dei cittadini che hanno pagato tasse dirette e indirette.

Nei governi delle città si replicano ciecamente le scelte dei governi, che ce lo chieda o no l’Europa, che il male lo sanno fare anche in autonomia. Per ottenere quella distribuzione dal basso verso l’alto, impressa dalla lotta di classe contemporanea, mascherano la crisi, il loro crack in modo che lo si attribuisca non alle distorsioni perverse del sistema bancario, ma al debito eccessivo dello Stato. E qualora questa decodificazione aberrante non fosse sufficiente a schiacciare i cittadini, a condannarli alla dimissione di aspettative, desideri, speranze, si intraprende la strada autoritaria, quella indispensabile a fare dell’austerità non la cura – opinabile – ma il fine e della limitazione della democrazia non una necessità – temporanea – ma l’obiettivo. E proprio come in guerra si sospendono elezioni, già prima sempre meno libere, o si riducono a una liturgia di conferma del volere imposto dall’alto, come dall’alto vengono calate misure di emergenza e sopravvivenza concepite da ristretti organi centrali, nell’eclissi delle rappresentanze.

È per quello che i bisticci molto ripresi dalle tv in un teatrale gioco delle parte, non rievocano né un attentato né una difesa tardiva del parlamento e della democrazia, ma solo una rappresentazione messa in scena per dare l’illusorietà che dentro a un potere formale a sua volta ubbidiente ad un potere sostanziale e remoto, esistano delle differenze, da combattere o nelle quali riconoscersi. Per non farci accorgere che siamo diventati tutti Pasquale.


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