Magazine Cultura
Di Giovanni Turi
Luigi Pirandello e Harold Pinter, un parallelo
Pirandello e Pinter: due autori insigniti del Nobel per la letteratura e che molto devono al teatro. Entrambi affrontano nel loro universo creativo il problema dell’identità, la propria e quella che a ciascuno viene attribuita da chi gli sta intorno; una questione cruciale, sebbene destinata a restare insoluta, ed è proprio questa irriducibilità irrazionale a dettare lo sperimentalismo di tanta della loro produzione. Non fanno chiaramente eccezione le prove narrative su cui ci soffermeremo: Uno, nessuno e centomila e I nani; parlare di romanzi sarebbe forse inopportuno, vista la netta predominanza delle sezioni dialogiche e dei brani speculativi in queste due opere, ma pur sempre di prosa si tratta.
Luigi Pirandello (1867-1936) è meglio noto come l’autore del Fu Mattia Pascal e della pièce teatrale Sei personaggi in cerca d’autore che ci hanno costretto a leggere a scuola, imparando a memoria la sua definizione di umorismo. Ma coloro che hanno avuto il piacere di rileggerlo in seguito hanno magari colto realmente la sostanza delle sue opere: il tentativo, non privo di una certa ironia, di denudare l’essenza umana e di scongiurare in questo modo la solitudine; nel momento stesso in cui ci si sofferma sull’incomunicabilità la si inizia a esorcizzare. Uno, nessuno e centomila è il testo pirandelliano che meglio definisce i termini di questa ricerca di sé. Il povero Vitangelo Moscarda inizierà a estraniarsi dalla vita nel momento in cui scoprirà di non essere il medesimo per se stesso e per gli altri; sua moglie gli fa notare che il suo naso gli pende a destra ed è per lui l’agnizione di una fisicità distinta da quella che conosce, figurarsi la ben più vasta e insondabile realtà interiore!
“E mi fissai d’allora in poi in questo proposito disperato: d’andare inseguendo quell’estraneo ch’era in me e che mi sfuggiva; che non potevo fermare davanti a uno specchio perché subito diventava me quale io mi conoscevo; quell’uno che viveva per gli altri e che io non potevo conoscere; che gli altri vedevano vivere e io no. […] Ma presto l’atroce mio dramma si complicò: con la scoperta dei centomila Moscarda ch’io ero non solo per gli altri ma anche per me […].” (Luigi Pirandello, Uno, nessuno e centomila, Mondadori)
A differenza della citata opera di Pirandello, nei Nani non predominano i soliloqui, bensì i dialoghi, che rendono ancor più stridente il paradosso tra l’intenzione comunicativa e l’effettiva solitudine dei protagonisti. Harold Pinter (1930) dichiara di aver scritto I nani “all’inizio degli anni Cinquanta, prima di cominciare a scrivere teatro” (per poi revisionare il testo e darlo alle stampe solo nel 1989); appare dunque ancor più eclatante la destrutturazione formale e sostanziale portata sino ai confini dell’intelligibile.
“– Hai capito di cosa stavo parlando?
– Si.
– E non sei d’accordo?
Mark scrollò le spalle.
– Non sei d’accordo?
Mark si schiarì la gola, raschiandola. Si dette un colpo sul petto e sputò.
– Cosa?
– Pensi che mi sbaglio?
Mark scrollò le spalle.
– Ma sono in errore? A prescindere da quello che pensi tu o che penso io, lo sono?
– Sono te, io?
–Sono io?”
(Harold Pinter, I nani, Einaudi)
È una conversazione rappresentativa di quest’opera, ma la trama è comunque abbastanza elementare: quattro giovani nella Londra degli anni ’50 cercano la propria collocazione sociale e professionale, ma soprattutto si interrogano, si confrontano, si smentiscono senza mai approdare ad alcuna verità che non sia relativa, come relativi e fragili sono l’amicizia e l’amore che li legano. In quest’atmosfera claustrofobica Pinter vuole forse sottolineare la distanza dalla quale osserviamo gli altri uomini, tanto lontani da apparirci appunto dei nani; ma i nani potrebbero anche essere i piccoli borghesi che si affaccendano indifferenti per rendere il mondo sempre più squallido e alienante.
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