Nella splendida cornice di una Piazza del Duomo non gremita in ogni settore e seggiolino come per gli idoli da teenager Ben Harper e Liam Gallagher, il Pistoia Blues si conferma in grado i confezionare serate di inaudito spessore per appassionati vecchi e nuovi, proponendo questa insolita ma riuscita accoppiata che tiene vivo il filo di oltre quarant’anni di evoluzioni progressive, dall’epopea 70′s di cui i Van Der Graaf Generator furono alfieri e tra i massimi interpreti, al periodo buio che ne è seguito, fino alla recente rinascita a cura di chi il prog non l’ha mai abbandonato, come Mr. Porcupine Tree, Steven Wilson, che ha stimolato negli ascoltatori una nuova ondata di interesse.
Incomprensibilmente anticipato l’inzio del concerto di oltre un quarto d’ora, a piazza ancora non assiepata e con volumi piuttosto bassi nonostante la quadrifonia proposta, lo sguardo alla figura di Peter Hammill scoraggia anzichèno. Questioni di pochi attimi trascorsi a contemplare una figura epica e ora pallida e magrissima, vestito come un nonnino che va alle poste sotto casa a ritirare la pensione, ma che a dispetto dell’apparenza non ha perso una singola libbra di entusiasmo, intensità e appassionata tenerezza (oltre che dimestichezza con l’italiano). I Van Der Graaf Generator, che nonostante girino il mondo ancora in formazione originale, non si rifugiano solo nei grandi classici ma scelgono un repertorio coraggioso e che include molti brani di recente estrazione, sono semplicemente in una forma strepitosa e quando concedono alla platea accorsa i loro brani storici (“A Plague of Lighthouse Keepers”, per esempio) e pezzi del repertorio solista di Hammill offrono i loro momenti migliori. Ciò che è forse più mirabile è la straordinaria intesa dei tre musicisti, certamente solidissima dopo quarant’anni di sodalizio ma che forse il pubblico non sospettava così enegergica e fresca, a giudicare dallo strepitio improvviso scatenatosi dopo una delle loro famose suite (e momento più alto del loro concerto, “Flight”), che spinge un pagante a implorare “Non dovete morire! Dovete vivere!” tra le risate generali di consenso e auspicio.
Un’ora e venti di grande musica introduce, strano a dirsi e vedere sul cartellone, il concerto del più giovane Steven Wilson. Sullo sfondo compare il viso di luna straniante e romanticamente cupo dell’ultimo splendido “The Raven That Refused To Sing”. E il concerto parte in quinta, con la sfuriata di basso di “Luminol” e una band affiatata e grintosa condotto da uno Wilson che gioca scenicamente a fare il direttore d’orchestra, tra atmosfere autenticamente oniriche e immagini/video con la velleità d’una poeticizzazione verbosa e ridondante, retaggio del retroterra musicale di Wilson & Co. che risulta talvolta in un accompagnamento non all’altezza (e soprattutto, al tempo) delle canzoni proposte e di uno show molto vicino alla pretesa di “rock opera”. Non a caso i momenti migliori, che sono veramente eccezionali in un concerto che in ogni caso resta esperienza memorabile per la qualità delle musiche e l’intensità con cui vengono proposte, ripropongono le gemme di uno dei dischi migliori del 2013, con menzione d’onore alla titletrack, e sono accompagnati da video e immagini riusciti e perfettamente integrati con le musiche. Questo è il caso anche di “The Watchmaker”, con esecuzione da urlo del momento più autenticamente prog delle loro quasi due ore, e forse dell’intera serata.
Tre ore di emozioni, musica e celebrazione d’un prog che non muore, ed anzi resta e muta, regalando brividi e pelle d’oca, l’entusiasmo nelle orecchie e la sensazione che passaggi di testimone così riusciti siano cosa rara e preziosa. Più che Pistoia Blues, Pistoia Prog, per una sera e con buona pace del blues di cui siamo tutti figli.