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Creato il 09 dicembre 2015 da Gaia

Io vorrei vendere delle galline; vorrei vendere delle galline a poco prezzo, o vorrei anche regalarle, perché le venderei o le regalerei solo a chi conosco e così sarei sicura che vivrebbero bene. Sarebbe una cosa locale; andrei in giro per i paesi a vedere i pollai delle personei, e a chi lascia che gli uccelli razzolino, a chi li uccide in modo rapido e più indolore possibile, a chi vuole bene ai suoi animali, io darei le galline e i galli che nascerebbero dal mio pollaio.

Il venditore che mi ha dato le mie prime due pollastre deve denunciare a chi vende cosa, ma non perché qualcuno controlli che gli animali siano felici: per motivi sanitari. Non so ancora in cosa consistano i controlli sanitari, perché denuncerò le mie galline alla ASL, come sono obbligata dalla legge a fare, la prossima settimana (nel caso la prossima pandemia globale scaturisca dal mio pollaio, sapranno come risalire a me).

Ho comprato le mie prime galline al mercato di Tolmezzo, quando finalmente, dopo mesi di attesa, il pollaio era pronto e la stagione era cominciata. Ero emozionata già dalla sera prima; come ogni cosa che si aspetta da tanto tempo e si ha anche ampiamente annunciato e su cui quindi si ha messo la faccia, avevo paura che qualcosa andasse storto. Scesi dalla corriera la mattina presto e mi precipitai a comprare le galline prima ancora di fare colazione. Ne parlavo con tutti quelli che incontravo. Mi sembrava un gesto di importanza planetaria.

In realtà, prima di andare al mercato, avevo provato a bussare a qualche porta in Carnia, lì dove vedevo bei polli, a chiedere se me ne avrebbero venduti. Ma tutti mi rimandavano a Tolmezzo, a quell’unico venditore al mercato che sembra, ma non è vero, sia l’unica fonte di galline di tutta la montagna.

Le galline in vendita al mercato si dividevano in rosse, da uova, e nere, da carne.

C’erano già alcuni acquirenti in fila. Ognuno sceglieva un colore e il venditore prendeva una gallina da una gabbia e la trasferiva in un’altra gabbia in cui stavano le galline già prenotate. C’era anche un gallo bianco con la cresta un po’ giù, e io avevo paura che nessuno lo volesse. Invece dopo un po’ avevo visto che era nella gabbia dei venduti anche lui.

Ne ho comprate due (una gallina costa circa otto euro) e le ho riportate su con me in corriera. Stavano in una scatola di cartone con dei buchi per far passare l’aria, poggiata sul sedile accanto al mio. Ogni tanto sentivo sbattere le loro zampe sul cartone, oppure vedevo una testa rossa che spuntava fuori da una fessura, due occhi semichiusi e un ansimare di uccello. Non vedevo l’ora di arrivare. Sembravano un po’ sofferenti.

Per non sovrapporre troppo questa storia a un’altra sullo stesso tema nell’ultimo libro che ho scritto, sorvolo sulla questione dei mangimi. Dico solo che mi rifiuto di dargliene.

Il venditore aveva detto che ci sarebbe voluto un mese perché cominciassero a fare delle uova. Io pensavo che si sarebbe anche potuto sbagliare, e che magari sarei stata fortunata e avrebbero cominciato a fare uova subito. Cominciò così un’attesa tremenda. Già dai primi giorni mi capitava di fissare il culo piumoso e soffice delle galline cercando di cogliere nei suoi movimenti l’indizio di uno stimolo. Finché venne a casa mia un ragazzo del paese per altri motivi e mi disse quello che tutti sanno: devono prima fare la cresta. Le stavo guardando dal lato sbagliato.

Ora che passo davanti ai pollai altrui, dove nuove pollastrelle piano piano soppiantano le vecchie galline, la differenza mi sembra lampante, come la differenza tra un umano adolescente e un vecchio. Nella mia inesperienza di allora, non mi ero nemmeno accorta che le mie galline non avevano ancora la cresta. Immaginate l’apprensione con cui la vidi, lentamente, spuntare e crescere.

Mia nonna mi racconta ogni tanto di una sua parente che si era sposata ma non era rimasta incinta subito dopo. Tutto il paese la guardava, tutto il paese indagava sullo stato del suo utero, iniziavano a roteare le malelingue, lei pregava per un figlio. Senza offesa, la mia attesa per il primo uovo mi parve qualcosa di simile.

Detto così, tempo dopo, non sembra niente di che, ma voi immaginatevi alzarvi ogni mattina sperando che la cesta racchiuda un uovo (che le mestruazioni non arrivino/che il test sia rosa), e, giorno dopo giorno, la cesta resti sempre vuota (le mutande rosse/il test bianco). Come se non bastasse, l’intero paese è partecipe dell’umiliante attesa, che dopo un po’ inizia a prendere i toni quasi di un’accusa. Inizialmente, la domanda era solo: “ti hanno fatto le uova?” Poi: “ancora no? Ma gli dai il mangime?” “Riportale a quello che te le ha vendute!” Un’altra donna, già madre: “vedrai che bello, il primo uovo… che soddisfazione…” A un certo punto ho pensato: finché non me lo fanno, io non scendo più in paese.

Una delle mie risposte frequenti era: “niente uova, ma fanno compagnia.” Confesso pubblicamente che stavo ore a osservarle. Tutto è soggettivo, ma le galline possono essere animali affascinanti tanto quanto gatti, cani o cavalli. Uno dei miei pensieri più frequenti, ad esempio, era: pensa se gli esseri umani mangiassero come le galline. Mi immaginavo due persone che camminavano sul tavolo, inchinandosi a raccogliere con la bocca il cibo che avevano appena calpestato, dando testate agli altri commensali per allontanarli, pulendosi la bocca sulla tovaglia, entrando con i piedi nel piatto, lasciando un boccone a metà per correre ad addentare quello del vicino, raccogliendolo con la bocca e sbattendolo in giro per farlo a pezzi senza disporre di mani… com’è tutto relativo!

Pensate entrare in una pasticceria da galline: saltate sul banco, vi gettate sulle torte, le lasciate lì per assaggiare il gelato, uscite, rientrate… non sarebbe meraviglioso? Noi siamo molto vincolati quando mangiamo.

Avevo solo due galline, di una stessa razza, dello stesso colore, forse di una stessa nidiata e programmate solo per fare uova. Infatti, quando mi chiedevano come si chiamassero, rispondevo “Guendalina, tutte e due”. Ma con il passare del tempo mi accorgevo che, oltre ad essere leggermente diverse (così leggermente che solo uno sguardo allenato poteva distinguerle) ognuna ha una sua personalità. Quella con il collo più bianco è più aggressiva, fa più uova, e preferisce gli scarti di orgine animale, come le croste di formaggio. Una volta l’ho vista ingoiare un topo intero. L’altra, con il collo più rosso, preferisce le verdure. Vi racconto tutto questo non per fare come quelli che scrivono libri sui loro gatti o parlano ossessivamente dei loro bambini, ma perché, a differenza dei gatti e dei bambini, la maggior parte delle persone non si pone il problema dell’individualità delle galline più di quanto si ponga il problema dell’individualità di una saldatrice in una fabbrica di portiere. E quando un animale, un’unica, irripetibile combinazione di geni, esperienze e circostanze, proprio come noi, viene ridotto a una semplice macchina destinata a produrre qualcosa al nostro servizio, il passo dall’indifferenza al maltrattamento diventa molto breve. Molte persone mi prendono benevolmente in giro per il mio attaccamento probabilmente ossessivo alle mie galline. Non si tratta, però, solo di un gusto personale: io disapprovo, ad esempio, chi riempie di attenzioni un animale domestico, e si disinteressa del fatto che per mantenerlo condanna alla sofferenza o all’estinzione un numero sconosciuto di altri animali. Io tengo le galline perché voglio le uova, non per capriccio, però cerco di trattarle nel miglior modo possibile, come dovremmo sempre fare – cercando di non applicare i miei parametri, ma i loro – e non è facile capire quali siano i parametri di una gallina.

Basandomi sulla mia esperienza, posso dire che alle galline interessa quasi esclusivamente mangiare. In secondo luogo, mi sembra che alle galline interessi non essere mangiate. Alle galline non piace stare rinchiuse, come non piace a nessuno. Se vengono rinchiuse brontolano. Se vengono prese quando non vogliono, brontolano. Se hanno fame brontolano. Non hanno bisogno di grandi spazi, anzi, però vogliono potersi muovere. Da me dispongono di un piccolo orto, che ha cessato di essere un orto nel momento in cui sono arrivate loro. Come sa chiunque ne abbia, orto e galline non possono coesistere. Con un movimento molto buffo che somiglia a una danza, le galline grattano il terreno con le zampe, poi fanno un passo indietro, si inchinano culo all’aria e iniziano a beccare freneticamente. Poi ricominciano. Tutto questo è molto veloce. Una volta mi sono inginocchiata accanto a loro perché ero convinta che li sotto non ci fosse niente e beccassero la terra solo per darsi un tono. Volevo vedere la cosa dalla loro stessa altezza. E infatti mi sbagliavo: il terreno era pieno di insettini minuscolissimi che loro vedevano con una precisione e una velocità che io come umana non riuscirei mai a riprodurre. Questo mi ricorda, tra l’altro, che la terra sana è una cosa viva. Ogni tanto, le galline cercano anche di inseguire una mosca. Io mi chiedevo come facesse un animale così goffo a catturare un insettino in volo; poi mi sono ricordata di Gozilla che prende gli aerei tra i grattacieli, e mi è sembrato comprensibile.

Spesso cercano di mangiare anche i preziosissimi lombrichi. Quando per caso ne espongo uno, lo ricopro velocemente di terra e gli dico: “scappa prima che ti vedano!” Ho preso l’abitudine di parlare agli animali, una di quelle cose che si inizia a fare un po’ timidamente e poi senza più inibizioni. Ormai esprimo anche pensieri complessi e forse intimi a esseri che so benissimo non possono capirli, mentre i vicini, che sono esseri umani, li capiscono e probabilmente provano almeno un po’ di fastidio. Perché parliamo da soli? Boh.

Un altro motivo per cui le galline hanno bisogno di spazio e di terra, e per cui se ne avessi le darei solo a chi non le chiude sul cemento, è che si devono lavare. Quello che per loro è lavarsi noi lo chiameremmo sporcarsi. Si distendono sulla terra e iniziano a beccarsi intorno. Scavano una piccola buca, si appoggiano di lato, alzano le piume (o qualcosa del genere) e scavando freneticamente con una zampa si gettano addosso più terra possibile e se la fanno schizzare tutta intorno. È una specie di idromassaggio con la terra. Così si puliscono. Poi si alzano e si scuotono come i cani con l’acqua. Le galline che fanno questo di solito hanno un piumaggio bellissimo, pieno e lucente.

Anche questo ve lo dico perché sappiate che le galline allevate in gabbia, e per quanto ne so io anche quelle a terra, questo non lo possono fare, anche se la loro biologia e il loro istinto lo richiedono. Comprereste prodotti da una fabbrica in cui viene impedito agli operai di lavarsi o sedersi? Una gallina non è un operaio, è vero, ma è un essere senziente; inoltre, a differenza di un operaio, non può ribellarsi. Può solo soffrire.

Avete presente quando una cosa che aspettate con ansia dovrebbe arrivare attorno a una certa data, potrebbe anticipare o anche tardare? Quando iniziate ad aspettare? Subito prima, da quel giorno preciso, o siete tranquilli anche qualche giorno dopo?

Una mattina appena dopo alzata, una mattina di giugno, sentii che una gallina faceva un canto nuovo. Conoscevo i loro soliti versi, che interpretavo quasi invariabilmente come significanti: “fame! Cibo!” L’unica eccezione era l’allarme che scattava quando si avvicinava il gatto rosso dei vicini. Non serviva che lo vedessero per agitarsi. Ogni tanto le sentivo gridare e mi affacciavo per vedere dove fosse il gatto: all’inizio non lo trovavo nemmeno, poi mi accorgevo che spuntava da una finestra, o strisciava rasente a un muretto. Una volta avevano dato l’allarme quando erano chiuse nel pollaio al buio e il gatto fuori. Probabilmente ne sentivano l’odore.

Il verso di quella mattina, però, era leggermente diverso, anche se forse simile nella sua origine: un allarme o una minaccia e quindi un desiderio di protezione. Faceva così: cooo-co-co-co-COOOOOO-cooo-co-co-co-co-co-COOOOOO

Con la sensazione semiconscia che ci fosse davvero qualcosa di nuovo mi affacciai dentro il pollaio, e lì lo vidi:

il primo uovo

Corsi in giro a gridarlo per il paese, e in quel momento mi accorsi che in realtà non interessava più di tanto a nessuno.

(Il proverbio dice: gallina che canta ha fatto l’uovo. Da quella mattina, per molte altre fui svegliata da quel verso sguaiato e promettente.)

L’intelligenza è un concetto umano, e quindi è tarato interamente su di noi. Quando parliamo dell’intelligenza di un animale stiamo in realtà valutando fino a che punto ci somiglia. Ricordo ancora l’affermazione di una studentessa il primo giorno di un corso di antropologia ambientale al mio terzo anno di università. Alla domanda: “che cos’è che ci rende speciali rispetto agli animali?” ognuno diceva la sua; la ragazza alzò la mano e rispose: qualunque criterio scegliamo, sarebbe arbitrario. Saremmo cioè noi a scegliere una delle nostre caratteristiche e a decidere che proprio quella è importante e speciale rispetto a tutte le altre caratteristiche possibili.

Se l’unicità della specie umana è auto-definita, lo stesso si potrebbe dire dell’intelligenza. Una gallina, ad esempio, potrebbe pensare che siamo stupidi perché non siamo capaci di farci le uova da soli o perché quando cadiamo da un tetto ci schiantiamo anziché planare. Io, lo ammetto, quando osservo le galline fatico un po’ a uscire dal mio antropocentrismo. Diciamo che si potrebbe dare una definizione trans-specista di intelligenza come capacità di imparare a raggiungere un obiettivo senza subire troppi danni. Faccio un esempio.

Le galline hanno un grandissimo bisogno di foglie fresche, e in particolare, le mie se non altro, prediligono il tarassaco. Siccome non hanno mani per fare a pezzi le foglie, la cosa più comoda per loro è strapparle dalla pianta a beccate; quando hanno pelato tutto il giardino, la cosa più comoda diventa beccare le foglie che io ho raccolto e tengo ferme con le mani. Ogni tanto mi stufo e butto le foglie per terra, lasciando che si arrangino (imboccare le galline mi sembra, a lungo andare, un po’ umiliante). Allora la gallina è in difficoltà, perché è difficile strappare qualcosa di leggero con il becco. Provate a fare a pezzi un foglio con una mano sola. Alle volte, per caso, una gallina mette una zampa sopra una foglia. A quel punto la sta tenendo ferma e quindi la può strappare senza problemi. Appena però sposta la zampa, la difficoltà ricomincia. Una rappresentante di una specie animale che obiettivamente ha trovato soluzioni ben più complesse di questa ai suoi problemi, cioè in questo caso io, guarda le galline e pensa: ma com’è possibile che non riescano a imparare a tenere ferme le foglie con le zampe? Non dico che devono capire perché la foglia è più facile da strappare quando c’è la zampa sopra: mi basterebbe una semplice associazione problema-soluzione, come i contadini che sapevano che con il letame i campi rendevano di più anche senza essere dei chimici.

Da questo punto di vista, la gallina non mi sembra un animale tanto intelligente. È buffa, è tenera, e a modo suo, cioè nella sua smania totale di mangiare il più possibile e quindi di avvicinarsi a quelle che impara a riconoscere come fonti di cibo, è anche affettuosa. Ma intelligente non lo so. Un po’ come noi umani, inoltre, la gallina non riesce a capire bene le minacce esistenziali. Riconosce il pericolo immediato, anche se ne dà una definizione piuttosto grossolana, ma non il pericolo invisibile. Sa reagire solo agli spaventi. Le mie galline temono i gatti e gli umani, e non sembrano nemmeno immaginare che a pochi passi da loro abiti un nemico davvero temibile.

Una sera d’estate ero sul terrazzo e guardavo il giardino. All’improvviso noto una forma scura tra gli stavoli di fronte. Non era un gatto: troppo affusolato. Più che trotterellare, correndo ondeggiava. Una faina.

Da teorico, il pericolo diventa visibile. Si sparge la voce in paese: c’è chi dice che le faine sono tante, chi la fotografa, chi mi chiede: è vero che la faina ti ha ammazzato le galline? (La mia prima e istruttiva esperienza di voce falsa sul mio conto)

Faccio un passo indietro: tutto il giorno le mie galline razzolano, ma la sera, ogni sera altrimenti guai, rientrano ordinatamente e spontaneamente nel loro pollaio. Si dice pur: andare a dormire come le galline, per dire: andare a dormire presto. Le galline vanno a dormire quando cala il sole, quindi tardi d’estate e presto d’inverno. In questo senso, forse hanno una consapevolezza inconscia della minaccia esistenziale rappresentata dal buio.

Il pollaio non l’ho costruito io, non ne sarei stata capace. È un pollaio piccolo, a prova di predatore, in vecchie assi raccattate in giro, tetto di lamiera, finestra di rete e pavimento di rete, perché si dice che le faine e le volpi scavano e forse rosicchiano anche il legno. Tutti quelli con cui ho parlato mi raccontano di aver perso molte galline in una volta sola per colpa di una volpe, una faina, o addirittura un rapace. Io non lo sopporterei: tralasciando l’investimento sfumato, il fatto è che ci si affeziona proprio. Perdere un animale che sei abituato a vedere ogni giorno è molto triste. Se poi lo perdi per una tua negligenza, sei anche colpevole.

Tra l’altro, la faina e la volpe non prendono solo quello che gli serve: quando entrano in un pollaio, si scatena in loro una specie di iper-istinto di predatore e ammazzano tutti gli uccelli. Il mattino dopo il povero allevatore apre il suo pollaio e trova solo galline morte.

Quel piccolo pollaio di legno e rete è quindi la mia unica difesa, oltre alla luce del giorno, contro la faina. Questo significa che io ogni mattina devo aprire alle galline e ogni sera, esattamente all’ora in cui cala il sole, devo essere a casa a chiuderlo. Se vado una sera fuori, per qualsiasi motivo, devo chiedere un piacere al vicino. Capirete che diventa piuttosto vincolante. Non è una cosa che faccio per pagare meno le uova: lo faccio perché credo che sia l’unico modo per essere sempre sicura che le uova che mangio abbiano causato la minor sofferenza possibile.

Ma, ovviamente, non basta. Come per ogni cosa, anche la gallina ha la sua filiera.


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