La vicenda del bilancio dell’Unione Europea dimostra che la retorica del “più Europa” non basterà a salvare l’UE dalla recessione, né assicurerà la tenuta dell’Euro. Forse è tempo che i decisori politici, o coloro che si candidano a diventarlo, passino al conflitto aperto, se davvero ritengono che l’Unione e l’Euro possano e debbano essere salvati.
Cosa serve per mantenere la stabilità di un’area valutaria come è l’eurozona? La risposta che spesso si dà è “uno stato”, ma se vogliamo essere più precisi dobbiamo dire “trasferimenti”. Come spiegava Wynne Godley, le regioni colpite da una recessione rimarranno nella moneta unica se arriveranno risorse per i disoccupati, se gli stipendi dei dipendenti pubblici, le pensioni e la sanità verranno erogati, insomma se funzioneranno quegli stabilizzatori automatici che permetteranno di riassorbire lo shock che, altrimenti, porterebbe alla deflagrazione.
Se questo è vero (e a parole in molti sembrano riconoscerlo) quando poi si passa ai fatti le cose cambiano. E così il prossimo bilancio dell’Unione Europea, invece di allargarsi per includere qualche misura di riequilibrio, sarà più piccolo di quello attuale. La trattativa è in corso e dovrà concludersi entro novembre. La Gran Bretagna, contributore netto, vuole imporre tagli drastici. Altri paesi frenano, ma comunque è già stabilito che il bilancio europeo per il 2014-2020 sarà ridimensionato. L’esatto contrario di quello che sarebbe necessario.
In particolare la Gran Bretagna propone tagli per 200 miliardi, la Commissione 75, la Germania 130. L’Italia in questa prospettiva perderebbe almeno 10 miliardi di trasferimenti, la Spagna 30. Insomma proprio i paesi che avrebbero più bisogno di sostegno sarebbero i più penalizzati. Nel frattempo la Francia (sì, la Francia del socialista europeista Hollande) difende solo i fondi per l’agricoltura, ma è disponibile ad un taglio della spesa complessiva.
Già in passato abbiamo sottolineato l’esiguità del bilancio europeo, pari a poco più dell’1% del PIL dell’Unione. Una misura ridicola se confrontata con quella di un vero stato federale, come gli USA:
Mentre si impone ai singoli stati un’austerità crescente, anche a livello centrale la spesa viene tagliata, con buona pace di politici e commentatori che, dopo il varo del fiscal compact e la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio, avevano invocato “più Europa”. Una pia illusione, perché l’austerità è una droga della quale servono dosi sempre più massicce. Il cammino verso l’unione federale forse avrebbe potuto funzionare se fosse stato intrapreso al contrario: prima espansione del “centro” e poi disciplina fiscale per i singoli stati membri. Ma se si parte dall’austerità in periferica, è piuttosto naturale che essa contagerà anche il livello “federale”, visto l’assetto dell’UE che dipende dagli accordi tra gli stati membri.
A farne le spese sarà forse il benemerito progetto Erasmus, che permette agli studenti di fare un’esperienza in un altro paese europeo. Eppure anche nei documenti ufficiali dell’UE è facile leggere la tesi (sulla quale varrebbe peraltro la pena discutere criticamente) secondo la quale bisognerebbe favorire la mobilità dei lavoratori all’interno dell’Unione come fattore di stabilità anche per l’euro. L’Erasmus è (era?) proprio un modo per formare i futuri lavoratori in una prospettiva europea. La falce dei “sacrifici” però non guarda in faccia nessuno.
Insomma, un’occasione persa. Eppure un livello federale finanziatore potrebbe funzionare, come dimostra l’esperienza delle Repubbliche baltiche, la cui austerità locale (peraltro non particolarmente pesante) viene compensata e ampiamente superata dai trasferimenti dell’UE.
La retorica del “più Europa” non basterà a salvare l’UE dalla recessione in cui è nuovamente caduta, né assicurerà la tenuta dell’Euro. Forse è tempo che i decisori politici, o coloro che si candidano a diventarlo, passino al conflitto aperto, se davvero ritengono che l’Unione e l’Euro possano e debbano essere salvati. Altrimenti le buone intenzioni non faranno che dare man forte al rigore tedesco.
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