“Piume di cobalto” di Daniela Ferraro
PREFAZIONE A CURA DI LORENZO SPURIO
Daniela Ferraro – Piume di cobalto
Questa nuova silloge poetica di Daniela Ferraro richiama il lettore a un’interpretazione concettuale dell’opera quale universum di contenuti, in cui le varie liriche sono in qualche modo –si cercherà di spiegarlo- non solo unite tra loro, ma si riflettono l’un l’altra. La poetessa calabrese ritorna così dopo Cerchi concentrici (a cadere dell’alba), pubblicato nel 2012, a compendiare le suggestioni che nutre verso il mondo, le emozioni variopinte e speziate dal ricordo e a svelare parte di sé e della sua esperienza di donna. Seppure è notevole il processo di maturazione che la poetessa ha effettuato in questi ultimi anni (individuabile soprattutto in una tecnica sintetica del verso, che raramente sfiora l’ermetico) credo di poter osservare che da un punto di vista meramente tematico (così come avevo accennato in una recensione alla sua precedente opera) risulta quanto mai difficoltoso sviscerare nella loro singolarità le motivazioni dalle quali questa poetica parte.
E’ chiaramente il mondo paesaggistico con le sue varietà floreali, arboricole e condizioni meteo a fare da sfondo alle varie liriche nelle quali la poetessa è come se si fermasse di colpo per donarci una sorta di diapositiva. In effetti l’io poetico sembra sospendersi più volte man mano che leggiamo le varie poesie; al lettore è richiesta implicitamente una compartecipazione all’atto della costruzione poetica (poiesis in greco significa “costruire” con le parole) superiore a quella che normalmente si pattuisce tra autore-lettore in qualsiasi atto di lettura e di interpretazione. Questo non perché le poesie siano difficili o costruite in un modo che al lettore può sembrare ostico comprenderne il significato, ma per tentare di ridurre al massimo le possibilità di incomprensione. Chi scrive poesia non si occupa (o non dovrebbe occuparsi) di come questa, nell’atto di lettura di un altro, venga intesa, concepita e realizzata concettualmente perché è chiaro che ogni lettore leggerà e interpreterà una silloge in base al suo filtro verso il mondo, in base alle sue conoscenze, in base al grado di affinità e di empatia e a tante altre cose che, in via generale, non sussistono, invece, per quanto concerne la narrativa dove, ciò che si narra è ciò che l’autore vuole farci intendere e che quindi dobbiamo essere disposti ad accettare.
Nel mondo poetico di Daniela Ferraro (ed è questo a mio modo di vedere uno dei punti di forza) ci si potrebbe in effetti perdere di continuo, ma perdersi non è mai qualcosa di negativo perché mette in moto un processo di analisi e ricerca nel quale l’animo umano è altamente cosciente e impegnato. Non è un caso che in “Farfalle” (emblema di leggerezza, ma anche di sospensione per ritornare a quanto sopra si diceva) la poetessa parli di “vita/ che ormai non ha crocicchi”, uno spazio concreto e della mente dove la destinazione, la possibilità di fuga o un eventuale punto d’incontro (tra sé e gli altri, tra l’io e il proprio sé) sembrano ormai essere impossibili.
A dominare nelle varie liriche sono ambientazioni prevalentemente fosche descritte in termini asciutti e rivelatori di una meteorologia infausta quanto inclemente, declinazione, forse, di uno stato d’angoscia con il quale si è convissuto in un determinato momento dell’esistenza. Dal punto di vista climatico, infatti, tra tante nuvole, tempeste, nebbie e pioggia, risulta sempre più difficile trovare un raggio di sole. Questo non significa che esso sia totalmente assente, ma nascosto, che va ricercato non tanto nel cielo, ma dentro di noi. Il vento, poi, è padrone indiscusso di una lirica nella quale non tanto si traccia un momento del passato con il ricordo dello sferzare delle fronde o il lambire della pelle, ma si incita alla sua forza, quasi cantandone l’importanza e decretandone il bisogno del rispetto nei suoi confronti, affinché, “imprima il bacio/ per morire in silenzio”.
L’impalcatura del libro è quella di un viaggio nel tempo (concreto) del giorno (dall’alba al suo tramonto o crepuscolo, come indicato in una lirica) e di un anno con le varie stagioni che ritroviamo nella diversa tipologia della flora anche se –in linea con l’ombrosità meteorologica di cui si diceva- è l’autunno a dominare, quel momento fatto di scurezza, desolazione e apparente morte naturale (gli alberi si spogliano, alcuni animali vanno in letargo). Non è assolutamente un caso che una delle parole più ricorrenti in tutto il libro sia quella di ‘ombra’ (con le sue naturali derivazioni ), che sta a delineare da una parte una realtà cupa, nella quale la luminosità sembra una recondita utopia, dall’altra una sorta di frontiera sospesa, in un universo dove a tratti è difficile fuoriuscire dal sogno per entrare nella realtà o dove si rischia di trovarsi ingabbiati in aporie di difficile soluzione. E’ richiamato a livello semantico e concettuale un modo che supera quello reale e concreto e nel quale, con l’opportuno utilizzo di vocaboli, si cerca di intessere uno stretto e affiatato colloquio tra il reale e il metafisico: “danzavano i sogni/ su punte di cristallo/ nel viale fiorito”; altre volte la Ferraro plana sul pensiero esacerbandone la forma per rinverdire considerazioni esistenziali volte a una ricerca infruttuosa ma con la quale è oramai in pace con se stessa: “Chi ero o sono io/ vaga è importanza”.
Il linguaggio, com’era stato nella precedente silloge, si rafforza con l’uso di vocaboli che non solo trasmettono un’immagine in sé definita, ma addirittura un concetto nel quale, con una modalità simile ai versi comunicati, si riversa il significato di liriche già lette, connettendole in un percorso della psiche, forse tortuoso, caratteristico del poetare della Nostra. L’utilizzo di alcuni termini desueti non intralcia più di tanto il naturale percorso di comprensione (la Nostra è una docente di Lettere e ha un rapporto diverso con il vocabolario italiano rispetto a quello che potrebbe avere la comune “casalinga di Voghera”) né lo ingabbia in una poetica d’antan o dal gusto barocco nella resa sulla carta di situazioni, eventi e riflessioni su momenti vissuti. Per gli amanti della letteratura, inoltre, non sarà difficile ritrovare qualche cameo letterario in “lo stormir di fronde” o nel “dolore antico” di leopardiana e carducciana memoria, rispettivamente.
Alcune poesie si fanno più intime e sembrano racchiudere il nerbo di un vissuto che ha sperimentato gioie e dolori e da entrambi ne ha tratto esperienza e conoscenza del mondo. Sono poesie in cui è evidente l’afflato per la vita, il canto alla gioia e a una vita di condivisione con l’altro; se un abbraccio ultimo, unico testimone di un allontanamento (non ci è dato sapere se obbligato e dunque subito o se libero, frutto di una decisione) è vissuto in termini fortemente cromatici e visuali come “l’ortica tra il rosso dei papaveri”, è anche vero che in questo libro si leggerà molto di amore (o meglio, si scoprirà l’animo sensibile di una donna che non teme di offrirsi ai più) e in questi versi chiosa verità eclatanti sostenute da un linguaggio semplice, aperto a tutti e di impressionante resa: “Non c’è memoria quando l’amore è inganno” o ancora “L’amore è un demone santificato”. L’amore ci insegna la Nostra è un sentimento nel quale credere e affidarsi se scevro dall’inganno, frutto di una propria scelta e motivato da un reale affiatamento perché, in altre circostanze, non è poi così raro che esso possa tramutare in qualcos’altro di molto deprimente: in una scialba consuetudine, come bersaglio di un tradimento, come strumento per soggiogare mente e corpo. Ecco perché la nostra sente il bisogno di porre l’attenzione qua e là sulla necessità che il sentimento sia autentico e vissuto, anche perché il clima sociale nel quale viviamo nel nostro oggi non aiuta nella realizzazione e conservazione dei rapporti umani dove tutto, anche l’amicizia o l’amore, spesso è ridotto a mercificazione, “La gente ha fretta…/ Passa, saluta, inciampa”.
Piume di cobalto, in questa sintesi superba di itinerario poetico in cui il blu acceso e quasi metallico si sposa con una dimensione aerea, sospesa, quasi surreale, è anche un invito a saper cogliere l’attimo, a far dono non solo dei propri successi, ma anche delle proprie sconfitte, a saper rielaborare le esperienze, riviverle e ricrearle con l’atto della scrittura, un po’ per esorcizzarne le negatività, un po’ per convincersi che poi quegli “ombreggianti pensieri”, quelle “vaghe apparenze tra fluttuanti nebbie”, non siano che caricature di un vissuto che poco ci appartiene perché siamo riusciti a cogliere quel raggio di sole, pure flebile, che nascosto dietro le nebbie dell’esistenza, ha messo fine a quell’universo di ombre e incertezze.
Lorenzo Spurio
Jesi, 23.09.2014