A Kathmandu si mangia discretamente bene, ci sono tanti piccoli ristorantini, quelli degli hotels dove si può mangiare una versione ricercata della cucina Nepalese o newari, qualche indiano vegetariano e non, un pò di cinesi. Funzionano anche le grandi catene come l’ottima Roadhouse Cafè, hanno chiuso la Kentucky Fried Chicken (KFC) e Pizza Hut. Avevano resistito alle richieste di donazioni dei maoisti ma non hanno retto alle attuali richieste salariali degli impiegati e alla concorrenza. Fra cui la potente Little Italy che ha aperto (a Durbar Marg). Malgrado il nome è una catena indiana che smercia pizza, fusilli, spaghetti e vino. Farà concorrenza ai piccoli ristoranti gestiti da italiani come il Fire and Ice o quelli aperti (decenni orsono) da italiani che hanno dovuto lasciare il paese come la Dolce Vita.
Little Italy è diventata una potenza nella distribuzione della cucina italiana in India (è presente in 20 città) e a Dubai e sta pianificando di espandersi in altri paesi dell’Asia. Fa solo cibo vegetariano, usa materiale riciclato ed è sempre presente nelle campagne dirette a preservare l’ambiente. Con qualche decina di migliaia di euro si può aprire un loro franchising. In Nepal è arrivata con un investimento di circa euro 400.000 sostenuto da due società finanziatrici Murarka Group and SHTC International anche loro d’origine indiana. Dovrebbe dare lavoro a circa 40 persone.
Assaggeremo gli spaghetti e la pizza, ma questa storia induce ad altre riflessioni sulla capacità del sistema Italia di muoversi nei paesi emergenti. Pizza, caffè, vino sono venduti da tutti, in Cina e in India, meno che dagli italiani. Le quote di penetrazione in questi mercati sono minime, nessun gruppo organizzato è presente. Quando in Italia si discuteva di mettere i dazi alle merci cinesi, i pizzaioli indiani di Little Italy, da Pune, iniziavano a costruirsi un impero alimentare. I tedeschi avevano voli costanti su Pechino, mentre l’Alitalia era affossata dalla corruzione, la BMW e l’Audi iniziavano a porre le basi per esportare in questi paesi, mentre la FIAT socializzava le perdite e privatizzava gli utili. Gli svedesi mettevano le catene di pizzerie, i francesi di caffè e di vino. Solo dopo la crisi economica che ha segato i consumi domestici qualcosa si è mosso e le aziende italiane (con poco aiuto dallo stato) hanno cercato di salvarsi con l’export ma la penetrazione sui mercati permane sempre bassa.
I dati indicano che dal 2003 le nostre esportazioni verso le aree extra UE sono raddoppiate, ciò significa che prima eravamo fermi (da euro 8.000 mio nel 2003 a oltre euro 16.000 mio nel maggio 2012). “Sulla base dei dati del Ministero del Commercio indiano, l’UE si e’ confermata, anche per il periodo aprile 2011 – gennaio 2012, il primo partner commerciale dell’India. Tuttavia la Cina ha ormai superato l’UE quale primo paese fornitore del sub-continente indiano, con una quota del 12,04% (14,46% se si considera anche Hong Kong) sul totale delle importazioni indiane (contro l’11,9% della quota UE). Primo fornitore fra i paesi UE e’ la Germania, con una quota del 3,22%. L’Italia, quarta tra i Paesi UE (dopo Germania, Belgio e Gran Bretagna), e’ al 24˚posto nella classifica complessiva, con una quota dell’1,13% sul totale delle importazioni indiane” Questo scrivono i rapporti tenendo conto che l’Italia ha aumentato solo nell’ultimo biennio le sue esportazioni con tassi di crescita del 20%. In Cina il vino francese vende per USD 751 mio, l’Italia per USD 94 mio (meno del Cile e dell’Australia), pensare che nel 2005 vendevamo meno di USD 4 mio.
La pizzeria di Kathmandu indica che l’Italia è poco competitiva come segnala il Growth Competitiveness Index, l’Italia si trova dopo la Polonia, la Tunisia, la Thailandia il Cile e la Malesia,nella più bassa posizione fra i paesi occidentali. Un’altra responsabilità per la classe dirigente di quel paese.
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