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Placida terra

Creato il 23 luglio 2013 da Abattoir

martedì 23 luglio 2013 di

Tratto da “Tutta colpa della maestra

Uscì quella mattina che sentiva ancora il sapore di caffè nella bocca e si leccava le labbra ancora calde della tazzina. E si aggiustò i baffi prima di tirare la sigaretta mattutina. Di lavoro ancora ce n’era e non poteva fermarsi.

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Certo due orette ancora poteva dormire ma c’era abituato lui a dormire poco. Tutte le aveva passate e la cicatrice sul braccio glielo ricordava ancora. Liberare le terre da quei crucchi bastardi non era stata una passeggiata. E non si fermava perché da liberare c’era ancora la sua di terra. Quella che calpestava sotto coi suoi piedi, che gliela avevano rubata a lui e alla sua gente. I Borboni furono, lui lo sapeva. E quella femmina nera, la draga, valeva più di tutti gli eserciti crucchi che poteva immaginare. Una mano che gli stringeva la gola era quello che sentiva ogni santissimo giorno della sua vita. La terra doveva essere coltivata, strappata di mano a quella femmina nera, nata perché lo Stato laggiù non c’era ancora stato e se c’era stato era per starsene con quella femmina nera, la draga. Neanche i colpi di mitra erano serviti per farlo calmare, con quei morti innocenti in quella vallata la prima mattina di maggio. Camminava ancora a testa alta attraversando la piazza e sputando ai piedi di quelli seduti alla villa.  Quella villa, rideva solo quando ci pensava, sulle inferriate lo aveva appeso e lui di tutta risposta si presentò alla manifestazione e a colpi di mitra ne fece fuori un poco. Non propriamente lui che le mani non se le macchiava, aveva i suoi scagnozzi lui. Così imparava la lezione. Ma lui duro era, i crucchi li aveva cacciati e quella femmina nera, la draga,  pure se ne doveva andare. Se le terre erano abbandonate e nessuno le va a coltivare dovevano andare ai contadini. Con le zappe, mica coi fucili. Fame di pane c’era e non di potere. E sognava con la sua donna di vivere in una terra libera e di crescere tanti bambini in mezzo alle campagne che amavano. Tutti glielo dicevano di lasciare stare che tanto le cose non cambiano. Se li avesse ascoltati forse quei figli li avrebbe visti. Ma la femmina nera, la draga,  se lo mangiò una notte di primavera spuntando tre colpi nel buio tra le rocce.

Il padre svegliò tutti quella notte e per sette giorni e sette notti correva per il paesino e gridava in faccia a tutti il nome della draga, ma nessuno sentiva, chiudevano le gelosie e tornavano alle loro case che tanto le cose non cambiano. Pure un bambino era scomparso perché diceva che l’aveva vista la femmina nera, la draga, mangiare quell’uomo. Che poi va a finire che la draga si mangia il drago, femmine voraci che succhiano sangue e fottono i loro figli. Passarono gli anni e chi doveva parlare parlò, con la forza, dentro alle mura della Vicaria Nova. Qualcuno diceva che sapeva dov’è che riposa adesso. Il bastardo della femmina nera nel frattempo pure la sua donna s’era presa, vigliacco fino alla fine fu. Lo Stato ci andò e se lo portò, ma quando era vecchio e non ci potevano fare niente. Nel frattempo tanto ancora altri ne arrivarono di figli della femmina nera e tutt’ora vanno girando anche se lo Stato dice che c’è stato in quella terra e che fa tante cose per combattere la draga, anche se ogni tanto gli piace allo Stato starci con la draga. Se questa fosse stata una favola di quelle belle arrivava un principe su un cavallo bianco a sconfiggere la draga e a liberare la terra. E di principi un poco ne vennero e la draga se li mangiò uno ad uno manco se fossero ciliegie che una tira l’altra. Ma questa non è una favola bella e un principe azzurro che uccide la draga non c’è mai stato. Ora però gli uomini che se lo ricordano sanno dove piangere Placido Rizzotto.

VB

Tags: corleone, Dalla Chiesa, luciano liggio, Mafia, Placido Rizzotto, portella della ginestra, sicilia, tutta colpa della maestra

 


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