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«[...] Dunque le generazioni umane non si sarebbero mai potute liberare dalle sciagure, finché al potere non fossero giunti i veri e autentici filosofi oppure i governanti delle città non fossero divenuti, per una grazia divina, essi stessi veri filosofi. Questi pensieri avevo in mente quando venni in Italia [l'odierno Sud della Calabria, nell'accezione antica del termine] e in Sicilia per la prima volta».Platone, Settima Lettera 326 A.
Il celeberrimo fondatore dell'Accademia lasciò Atene nel 399 a.C., in seguito al processo e alla conseguente condanna a morte che i suoi concittadini inflissero a Socrate. Nel corso del decennio successivo, errando fra Megara, Cirene e l'Egitto – le antichissime tradizioni culturali di quest'ultimo, con tutta probabilità, ispirarono a Platone l'allegoria di Atlantide – alla ricerca della «vera filosofia», Platone si avvicinò soprattutto alle sette mistico-religiose dei Pitagorici di Magna Grecia e Sicilia, prima di recarsi a Siracusa, ove tentò tre volte di mettere in pratica il suo modello ideale di governo, la Repubblica guidata dai filosofi.Che Platone sia giunto anche a Reggio, nel corso nel suo peregrinare, è un'ipotesi comprovata da diversi elementi: in primo luogo, la città dello Stretto divenne, a partire dalla chiusura dei «sinedri» (le «scuole» pitagoriche) indette da Crotone e da altre poleis magnogreche intorno al 450 a.C., il luogo privilegiato di asilo per gli iniziati alle dottrine matematiche, astronomiche, musicali e filosofiche elaborate dai Pitagorici. Inoltre, Platone stesso dovrebbe aver dedicato a un pitagorico reggino suo amico, Teeteto, il primo libro della ScienzaChissà se proprio l'imminente conflitto fra Reggio e Siracusa – che si concluse con una tragica sconfitta subita dalla città dello Stretto – indusse l'esule ateniese a recarsi in Sicilia, nel 388 a.C., alla corte di Dionisio I. Per la cronaca, tutti e tre i tentativi di trasposizione pratica della Repubblica – i filosofi al potere – si tradussero in altrettanti fallimenti e, Platone terminò il suo primo viaggio in Occidente venduto come schiavo al mercato dagli sgherri di Dionisio I, che liquidò le idee platoniche come «frutto di un rimbambimento senile»
«Appena giunto mi disgustò la vita che quivi era chiamata felice, piena com'era di banchetti italioti e siracusani, e quel riempirsi lo stomaco due volte al giorno e non dormir mai solo la notte»
Platone (Settima Lettera, 326 B), nel breve tempo in cui soggiornò in Italia – e quindi anche a Reggio –, ebbe modo di notare una peculiarità ancora oggi non passata di moda negli usi e costumi del Mezzogiorno: la longue durée delle mangiate calabresi e siciliane, con l'annessa tendenza di annegare i pensieri della vita fra fiumi di alcool e oceani di vivande come le reggine frittole, curcuci o caddhuraci. Forse il sommo filosofo, ossessivamente orientato al perseguimento dei propri ideali, si trovò invischiato a malincuore in qualche festa patronale – magari le pagane Artemisie che si svolgevano a Reggio in estate, poi rifunzionalizzate nelle cristianissime Festi ì Maronna – e qualche satizzu gli fu indigesto, oppure egli aveva perfettamente colto nel segno quella deleteria abitudine all'ozio intellettuale che tuttora caratterizza il popolo meridionale? Ai posteri l'ardua sentenza.
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