Giambattista Gigola, Il simposio platonico.
Ca. 1790, Musei Civici di Arte e Storia, Brescia.
Gli uomini non comprendono per nulla la potenza dell’amore, il più amico, il protettore degli uomini, il medico di quei mali la cui guarigione sarebbe la più gran felicità per il genere umano. Vi spiegherò in che consiste la potenza dell’amore, ma per prima cosa bisogna parlare dell’iniziale natura umana e delle modificazioni che ha subito.
Originariamente la nostra natura era diversa rispetto all’attuale. I generi dell’umanità erano tre, e non due come ora (il maschio e la femmina): c’era un terzo genere, ora scomparso, comune ad entrambi per aspetto e per denominazione, di cui è rimasto il nome. Questo genere era l’androgino. La forma di ciascun uomo era completamente rotonda, con la schiena e i fianchi disposti in cerchio, ognuno aveva quattro mani, quattro gambe e due volti del tutto simili sopra un collo rotondo, c’era poi un’unica testa per entrambi i volti, ai lati opposti, e quattro orecchi, due organi genitali, e tutto il resto come ci si può immaginare partendo da tutto ciò. Potevano anche camminare in posizione eretta, come ora, nella direzione che volevano; oppure, quando cominciavano a correre velocemente, simili ad acrobati, appoggiandosi sulle gambe, che erano otto, si muovevano rapidamente in cerchio. E i generi erano tre e così creati per la seguente ragione: il maschio discendeva dal sole, la femmina dalla terra, e l’androgino dalla luna, poiché anche la luna partecipa del sole e della terra; erano sferici e procedevano in modo circolare, per la somiglianza con i loro genitori. Erano tremendi per il vigore e la forza, nutrivano delle intenzioni arroganti, e tentarono di attaccare gli dèi, e gli altri dèi si riunirono per decidere cosa si dovesse fare, ma erano in difficoltà: non sapevano stabilire se ucciderli e farne scomparire la razza, fulminandoli come i Giganti – così sarebbero scomparsi gli onori e i sacrifici che potevano giungere nei loro confronti da parte degli uomini – o se lasciarli imperversare. Dopo faticose riflessioni, Zeus disse: « Credo di avere un mezzo per il quale gli uomini possano esistere e lasciare la loro sregolatezza, diventando più deboli. Allora, adesso taglierò ciascuno di loro in due ed essi saranno più deboli e insieme saranno più utili a noi per il fatto d’essere più numerosi; e cammineranno eretti, su due gambe. Ma se ancora avranno l’intenzione d’accanirsi e non vorranno rimanere tranquilli, li taglierò in due una seconda volta, di modo che cammineranno su una gamba sola, saltellando ». Ciò detto, tagliò gli uomini in due e man mano che ne tagliava uno ordinava ad Apollo di rovesciare il volto e la metà del collo verso il lato del taglio, affinché l’uomo, osservando il taglio, fosse più moderato, e comandava di risanare tutto il resto. E Apollo rovesciava il volto, e raccogliendo e tirando da ogni parte la pelle su quello che oggi si chiama ventre manteneva una sola apertura e la legava con forza nel mezzo del ventre, ed è appunto quello che oggi si chiama ombelico. E stendeva quasi tutte le numerose rugosità, e sistemava le varie parti del petto; tuttavia ne lasciò alcune, quelle intorno al ventre e all’ombelico, a futura memoria dell’antico evento. Una volta divisa in due la natura umana, ciascuna metà, desiderando la sua metà perduta, la raggiungeva; e abbracciandola forte e intrecciandosi l’una con l’altra, per il desiderio d’essere tutt’uno, si lasciava morire di fame e d’apatia, perché non voleva fare niente separatamente. E ogni volta che una delle due metà periva, mentre l’altra restava in vita, la superstite cercava un’altra metà e con lei s’intrecciava, sia che incontrasse la metà di una donna tutta intera – la metà che ora si chiama donna – sia che incontrasse quella di un uomo. E così morivano gli esseri umani. Ma Zeus, impietosito, preparò un altro accorgimento, e spostò davanti i loro genitali – infatti, sino allora avevano anche i genitali sul lato esterno, e procreavano e partorivano non fra loro, ma sulla terra, come le cicale – spostò dunque in questo modo i loro genitali sul davanti, e attraverso questi stabilì la generazione tra di loro, attraverso il maschio nella femmina, affinché, nell’abbraccio, se un uomo incontrava una donna, generassero e si riproducessero, e insieme se un maschio incontrava invece un maschio, sorgesse almeno la sazietà di quella congiunzione, e vi ponessero termine, si volgessero ad altra attività e si curassero del resto della vita. L’amore degli uni per gli altri da tempo è innato negli uomini, riunisce la natura antica, e si sforza di fare, di due, uno, e di guarire la natura umana. Ciascuno di noi è quindi un complemento d’uomo, poiché è stato tagliato – come le sogliole – in due: ciascuno, dunque, cerca sempre il proprio complemento. Gli uomini che sono come la parte tagliata dal genere comune, che allora si chiamava appunto androgino, desiderano le donne, e la maggior parte degli adulteri deriva da questo genere, e anche le donne che sono amanti degli uomini e le adultere discendono tutte da questo genere. Le donne che derivano dal taglio di una donna, non prestano per nulla attenzione agli uomini, ma si rivolgono piuttosto alle donne. Tutti quelli, infine, che derivano dal taglio di un maschio, ricercano i maschi, e finché sono fanciulli, essendo frammenti del maschio, amano gli uomini e godono di giacere assieme agli uomini, abbracciati strettamente ad essi; e tra i fanciulli e gli adolescenti, questi sono i migliori, in quanto sono per natura i più coraggiosi. Alcuni affermano invece che questi sono degli svergognati, ma dicono il falso: infatti, si comportano così non per spudoratezza, ma per ardimento, coraggio e virilità, affezionati a ciò che è simile a loro. E di questo c’è una conferma: giunti alla maturità, infatti, soltanto gli uomini di tale natura si dimostrano adatti alla politica. Quando sono diventati uomini amano i ragazzi, e volgono la mente al matrimonio e alla procreazione dei figli non per la loro natura, ma perché costretti dalla legge: a loro basta, piuttosto, passare la vita assieme, senza nozze. Un tale individuo, dunque, diventa in tutti i modi sia amante dei fanciulli, sia innamorato degli amanti, aspirando sempre a ciò che gli è congeniale. E quando l’amante dei ragazzi, o qualsiasi altro, incontra quella che è la sua metà, allora è sopraffatto in modo straordinario dall’affetto, dall’intimità e dall’amore; e non vuole, se così si può dire, separarsi dall’altro, neppure per breve tempo. E quelli che passano assieme tutta la vita sono individui che non saprebbero neppure dire cosa vogliono ottenere l’uno dall’altro. A nessuno potrà sembrare che si tratti solo della comunanza dei piaceri amorosi, come se solo per questo l’uno avesse piacere a stare vicino all’altro e con uno slancio cosi grande: è chiaro, al contrario, che è l’anima di entrambi a volere qualcos’altro, che non è capace di esprimere; di ciò che vuole, piuttosto, essa ha un preveggenza, e parla per enigmi. E se, mentre stanno distesi vicini, Efesto apparisse davanti a loro, con i suoi strumenti, e domandasse: « Che cos’è, uomini, quello che volete ottenere l’uno dall’altro? », e se, di fronte al loro imbarazzo, di nuovo li interrogasse: «Forse è questo che desiderate, avvicinarvi quanto più è possibile l’uno all’altro, così da non rimanere staccati, né di notte né di giorno? Se desiderate questo, voglio fondervi e saldarvi in qualcosa d’unico, in modo che, da due che siete, diventiate uno, e finché rimarrete in vita, viviate entrambi in unione, come un essere solo, e quando sarete morti, ancora laggiù, nella dimora di Ade, siate uno in luogo di due, in unione anche da morti; guardate dunque, se l’oggetto della vostra passione è di questa specie, e se vi basta ottenere questo»: noi sappiamo che nemmeno uno di loro, sentendo questo, rifiuterebbe, o rivelerebbe di volere qualcos’altro; ciascuno, piuttosto, crederebbe senz’altro di aver udito proprio quello che da molto tempo desiderava: diventare – congiungendosi e confondendosi con l’amato – da due uno. La ragione è che la nostra natura antica era fatta così, e noi eravamo interi: il nome di amore è dato al desiderio e alla ricerca dell’unità. E prima, come ho detto, eravamo un’unità, mentre adesso, per avere agito male, siamo stati disseminati dal dio. Dobbiamo dunque temere, se non ci comportiamo bene verso gli dei, di essere tagliati in due ancora una volta. Proprio per questo bisogna sollecitare ogni uomo ad agire con rispetto riguardo agli dèi, in tutti i punti, al fine, da, un lato, di sfuggire a qualcosa, e, d’altro lato, di cogliere qualcosa, secondo che ci guida e ci comanda Eros. Nessuno agisca contro di lui – contro di lui, peraltro, agisce chiunque si renda odioso agli dei – poiché, se diventiamo amici del dio e ci riconciliamo con lui, scopriremo e incontreremo proprio i nostri fanciulli, il che accade a pochi degli uomini di oggi. Se vogliamo dunque celebrare un dio che sia la causa di ciò, sarà giusto celebrare Eros, che nel tempo presente ci procura i più grandi benefici, dirigendoci verso ciò che ci è proprio, e nel tempo avvenire offre le speranze più grandi.
Traduzione di Marco Vignolo Gargini da Platone, Simposio, a cura di Giovanni Reale, Rusconi Libri, Milano, 1993, pp. 88-92.