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Ploy

Creato il 12 marzo 2011 da Eraserhead
PloyDi certo Last Life in the Universe (2003) rappresenta uno spartiacque nella filmografia di Ratanaruang. Prima di questo film le sue opere avevano un’impalcatura contenutistica più “leggera” che sconfinava spesso nella commedia pur mantenendo un convincente legame con tematiche più seriose (penso all’ottimo 6ixtynin9, 1999), dopo Ruang rak noi nid mahasan invece, gli interessi di Pen-Ek si fanno più “adulti” virando nettamente verso uno spiritualismo di matrice tipicamente orientale. Dalle storie di mafiosetti e loschi traffici si passa ad una radiografia dei corpi umani, intima, interna, senza però lasciare da parte un gusto cinematografico sempre di prim’ordine.
Se con Invisible Waves (2006) dicevo che il percorso filmico di questo regista aveva una notevole coerenza interna, Ploy (2007) rafforza tale concetto dando vita a un flusso artistico che magari non sarà ai livelli di Tsai Ming-liang ma che comunque si difende con onore.
Andando ad analizzare la sinossi, si può subito notare che l’arrivo in Thailandia da parte della coppia è dovuto alla morte del nonno. La morte penekkiana comporta sempre uno spostamento, che sia di immigrazione o di emigrazione non ha importanza, ciò che noi vediamo sono anime che partono (o stanno per farlo) e arrivano, con lugubri fantasmi sulla coscienza. In passato il regista aveva reso iconografica la morte rinchiudendola all’interno di bauli o tavolini tombali, qui non si assiste a nessun omicidio, non ci sono pallottole che esplodono e nemmeno sangue che cola via, eppure Ploy è probabilmente il film più drammatico di Ratanaruang perché è, nei limiti, molto aderente alla realtà del nostro tempo.
Non verrà rappresentata, meramente, la fine di una vita, ma qualcos’altro arrivato al capolinea c’è, e non è altro che l’amore. La coppia ivi immortalata vive una relazione che arranca, i due non dormono più insieme e si vedono poco perché l’uomo è oberato dal lavoro, inoltre lei ha con ogni probabilità rinunciato alla carriera da attrice per seguirlo in America e ciò l’ha fatta sprofondare nell’alcolismo. Nonostante l’algida tecnica dell’autore thai il dramma che lentamente scivola sullo schermo è ad una rielaborazione degli elementi tanto potente quanto convincente.
La goccia che fa tracimare un vaso già in bilico di per sé è questo peperino di nome Ploy, ragazzetta di cui non si sa nulla ma che in salsa pasoliniana e miikiana smuove la morale e strappa letteralmente via quella finta patina sentimentale che tiene incollate permododidire due persone che non si amano più. Una volta separati però si accorgono di come essere soli sia sempre peggio che stare insieme per finta, lui piange nella doccia, lei viene violentata da uno sconosciuto. Il finale che riconcilia appare più come una resa, un adeguarsi, un assuefarsi, quando l’uomo dice di amarla lei risponde che quella ragazzina era abbastanza bella.
Ma parallelamente allo scorrere della vicenda si assiste frammentariamente ad un incontro passionale fra la cameriera dell’hotel in cui i protagonisti soggiornano e il barista dello stesso.
Se da una parte abbiamo un legame sfilacciato dall’altra assistiamo a due corpi che si annodano voracemente in cui magari non vi sarà dell’amore con la A maiuscola, ma almeno attrazione, calore, ardore. Quest’altra coppia è l’antitesi di quella protagonista, loro sono i fantasmi di un sentimento ormai perduto, Ploy dirà di averli sognati, e infatti resteranno una chimera irraggiungibile.
Eyes Wide Shut miniaturizzato in chiave thai, splendido.Ploy

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