Fatevene una ragione: non ha vinto il PD, e non ha vinto nemmeno Renzi. Ha vinto l’immensa, sempiterna, endemica pavidità degli italiani.
Io non me le sono sognate le piazze stracolme di gente: sembravano le adunate oceaniche di mussoliniana memoria — mi sono sempre chiesta dove fossero, tutte quelle persone lì, il 26 luglio e il 9 settembre 1943: i miei nonni mi raccontavano di averne viste parecchie, in quelle date, gettar via i distintivi, bruciare le tessere e fare stracci delle camicie nere. Adesso la situazione non è così tragica, ma è chiaro che qualcuno di quegli osannanti deve aver cambiato idea, nel chiuso del seggio.
Hanno vinto i pavidi, dunque. Quelli che, avendo ancora qualcosa — un briciolo, un’ombra, un’idea di qualcosa purchessia — da difendere, sono pervicacemente decisi a non mollare, costi quel che costi, e che gli altri s’impicchino: quelli che, siccome possono contare su qualche soldo fisso alla fine del mese (pensionati, statali, parastatali eccetera), neanche riescono a immaginare come vive chi, invece, quelle magre certezze le ha perse da tempo o è in procinto di perderle, senza nulla poter fare per evitarlo. La media dei suicidi in Italia, oggi, è più di 1 al giorno. Ma poiché la cosa non riempie i media, è come se non accadesse: la vita è dura per tutti, rispondono i pavidi; ognuno ha i suoi problemi, insistono, e chiudono lì il discorso. Come dire “mors tua vita mea” — crepa tu che campo io, insomma.
Capirete che non è una bella cosa. Ora, non dico che si debba fare tutti come il principe Kropotkin, che abbandonò gli agi del palazzo natìo per farsi profeta e testimone dell’anarchia in nome degli ultimi. Però, vivaddio, uno straccio di sensibilità per quella cospicua parte di Italia che sta andando a catafascio lo vogliamo avere o no? Anche in considerazione del fatto che la buona vecchia lotta di classe nasce proprio da qui, dalla divaricazione crescente fra chi non ha nulla e chi ha troppo — ma già, Marx non va più di moda.
Che poi non si tratta neanche di compassione a buon mercato: qui si tratta di altro. Si tratta di una casta vergognosamente corrotta; si tratta di una comprovata collusione fra Stato e mafia/e; si tratta di un sistema che premia arrivisti e leccaculo ma bastona gli onesti e i meritevoli; si tratta di una classe politica che ha a cuore non già il bene comune — questa bizzarra chimera — bensì il tornaconto personale. Era De Gasperi, mi pare, a dire che la differenza fra lo statista ed il politico è che lo statista si preoccupa delle prossime generazioni, il politico delle prossime elezioni: riascoltatevi i pistolotti elettorali di Berlusconi e di Renzi, trovate le differenze e passatevi una mano sulla coscienza. Perché tutta la manfrina dei due marpionacci e dei loro servi più sciocchi è servita soltanto a rafforzare quello status quo che a parole fa schifo a tutti ma nei fatti è tanto rassicurante, ve ne siete accorti, sì?
Personalmente, una cosa che mi procura fitte di dolore metaforico e metafisico è il vedere tanta bella gioventù che, per non aver vissuto i famosi anni Settanta, è seriamente convinta che Renzi e la risibile flatulenza di cui è segretario incarnino i valori della sinistra — sinistra?!? Ma ditela, perdio, una cosa di sinistra! — e che non sia giubilante fricchettonismo o cupo politically correct. Niente da fare, eh? Non ci riuscite proprio. Roba da farmi rimpiangere acutamente i metalmeccanici della Sesto rossa e proletaria.
Insomma è andata com’è andata — poteva andare meglio, sicuramente. Ma una battaglia non è la guerra, e poiché amo le cause perse sta’ a vedere che m’impegno pure su questa, se mi garba. Però una cosa la devo dire, perché a tenersi tutto dentro vengono l’ulcera e i brufoli: se Brasillach, tantissimi anni fa, cantava “il mio paese mi fa male” io, che poetessa non sono, vado giù dura — il mio paese mi fa schifo.
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