Poca antimateria? Chiedi ai campi magnetici

Creato il 15 maggio 2015 da Media Inaf

Nell’universo non è molta, per quanto ne sappiamo oggi, la materia ordinaria, quella di cui siamo fatti e di cui sono fatti stelle pianeti e galassie che osserviamo. Solo il 4-5 per cento della massa e dell’energia totali. Eppure, possiamo ritenerci fortunati perché, nella teoria del Big Bang, per tutta la massa di materia ordinaria creata nell’istante zero dell’universo, si sarebbe dovuta creare la stessa identica quantità di antimateria. Una situazione alquanto scomoda poiché se una particella di materia interagisce con una speculare di antimateria, ciò che rimane è solo un lampo di energia. Invece, da quello che misuriamo oggi l’antimateria totale sarebbe appena un decimiliardesimo della materia ordinaria. Evidentemente, nelle prime infinitesime frazioni di secondo dopo il Big Bang deve essere avvenuto qualcosa, che i fisici chiamano rottura della simmetria CP, che ha portato a questo nettissimo squilibrio.

Per cercare tracce concrete di questo fenomeno, alcuni ricercatori guidati da Wenlei Chen (della Washington University negli Stati Uniti), hanno utilizzato i dati della radiazione gamma raccolti dallo strumento LAT a bordo dell’osservatorio spaziale Fermi della NASA. L’idea di sfruttare queste informazioni parte da un lavoro teorico proposto nel 2001 da Tanmay Vachaspati dell’Arizona State University, secondo cui tracce della rottura della simmetria CP possono essere trovate nella configurazione di campi magnetici elicoidali che permeano l’universo. La loro elicità predominante, ovvero il fatto che si “attorciglino” prevalentemente in una direzione tra le due possibili (sinistrorsa o destrorsa) sarebbe proprio l’indizio dello sbilanciamento primordiale tra materia e antimateria.

I raggi gamma che viaggiano nel cosmo funzionano come degli indicatori indiretti di questi campi magnetici: quando un fotone di altissima energia ne urta un altro di energia più bassa, ad esempio quelli che costituiscono la radiazione cosmica di fondo (CMB), produce una coppia di particelle: un elettrone e un positrone, che vengono deviati dai campi magnetici cosmici. Questa deviazione determina la riemissione di fotoni di energie più basse. Analizzando la distribuzione di questa radiazione si può, in linea di principio, ricavare informazioni sull’orientamento dominante dei campi magnetici e la loro elicità.

Chen e il suo team, tra cui lo stesso Vachaspati, tutti ricercatori esterni alla collaborazione Fermi-LAT, sembrerebbero aver individuato proprio questo andamento dall’analisi dei fotoni gamma raccolti da Fermi e resi pubblici dalla NASA.  I dati mostrerebbero la presenza di campi magnetici elicoidali, con un eccesso di quelli sinistrorsi. Una scoperta che suggerisce i meccanismi che hanno portato all’attuale quasi totale assenza di antimateria. Ad esempio, alcuni fenomeni avvenuti miliardesimi di secondi dopo il Big Bang, quando il campo di Higgs ha fornito massa a tutte le particelle, predicono la presenza di campi sinistrorsi nell’universo attuale, mentre fenomeni che sarebbero avvenuti ancora prima suggeriscono la predominanza di quelli destrorsi.

«La tecnica proposta in questo lavoro è interessante ed innovativa, e dimostra, come altri studi pubblicati, l’importanza dei raggi gamma per comprendere anche aspetti fondamentali delle cosmologia dell’Universo» commenta Luca Latronico, dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, membro del team di Fermi LAT. «Al momento il segnale misurato è molto piccolo e non consente di parlare di scoperta, ma indica una direzione promettente di studio, con potenziali conseguenze importanti su quesiti fondamentali ed irrisolti come l’asimmetria materia-antimateria. E’ tuttavia importante notare che misure così sofisticate di quantità derivate con complessi calcoli matematici richiedano verifiche profonde ai metodi di trattamento dei dati. Gli autori stessi indicano nell’articolo alcune incongruenze dei loro risultati, come la differenza dei risultati per gli emisferi Nord e Sud del cielo, molto probabilmente legata ad una contaminazione dei fotoni della nostra Galassia nei dati utilizzati. Queste possono essere spiegate solo in parte con assunzioni ragionevoli, e necessitano di ulteriori controlli per poter affermare definitivamente che il metodo proposto è robusto. Una volta accertato, occorrerà comunque aspettare di raccogliere molti altri dati con lo strumento LAT del satellite Fermi, per poter affermare con certezza di aver rilevato il segnale cercato».

Per saperne di più:

  • l’articolo Intergalactic magnetic field spectra from diffuse gamma-rays di Wenlei Chen et al pubblicato sulla rivista Mothly Notices of the Royal Astronomical Society

Fonte: Media INAF | Scritto da Marco Galliani


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