Magazine Cinema
La carica dei 101
I migliori film del cinema giapponese dal 2000 a oggi scelti dalla redazione di Sonatine
Pochi no kokuhaku (ポチの告白, Confessions Of A Dog). Regia: Takahashi Gen. Sceneggiatura: Takahashi Gen, Terasawa Yû; Fotografia: Iioka Masahide, Ishikura Ryuji; Montaggio: Takahashi Gen; Sonoro: Nishioka Masami; Musica: Ogura Naoto, Takai Urara; Interpreti: Sugata Shun, Inoue Harumi, Idemitsu Gen, Kawamoto Jun’ichi, Ida Kunihiko, Nomura Hironobu. Produzione: Grand Café Pictures, Shinkukan; Produttori: Kobayashi Takayuki, Kodaka Isao, Sato Terukazu, Takahashi Gen, Tamura Shôzo; Durata: 195’. Anno di Produzione: 2006. Uscita nelle sale giapponesi: 24 gennaio 2009Takeda è il tipico poliziotto medio, senza laurea che, nella vita, non può mirare a nient’altro che ad una dignitosa carriera come agente di quartiere. Deve inoltre poter mantenere la sua piccola famiglia composta dalla giovane moglie e da una figlioletta. Queste caratteristiche, in grado di fare passare inosservata, ai più, un’esistenza come la sua, gli consentiranno di essere notato e prescelto dai prefetti degli organi amministrativi locali: da chi, cioè, controlla molte delle dinamiche sociali giapponesi, orchestrando e coordinando i propri atti con la stampa ed i magistrati. Takeda diviene, quindi, un perno fondamentale nel fitto sottobosco di traffici illegali che, scopriremo presto, essere all’ordine del giorno per la polizia giapponese. Dopo anni di onorato servizio, indiscriminata sottomissione ad ogni volere del suo capo Mie, subentra, ad incrinare questo delicato equilibrio, il giornalista freelance Kusama. Questi, con il fotografo Kitamura, verrà a conoscenza di alcuni traffici illeciti nei quali è coinvolto il capo Mie assieme a tutto il distretto di Takeda. Tale vicenda avrà sicuramente una ripercussione finale negativa sulla vita di Takeda, che vedrà la sua indiscriminata e fedele abnegazione per Mie calpestata ed infangata. Chi ha davvero sempre avuto le redini del gioco in mano, si sentirà autorizzato ad umiliare colui che lo ha servito con abnegazione, facendo valere il suo grado superiore e prevaricando inesorabilmente ogni diritto umano.Takahashi Gen rappresenta, nel panorama del cinema giapponese contemporaneo, una realtà totalmente indipendente e libera da restrizioni esecutive di qualunque sorta. Dopo un breve inizio come mangaka, ed una gavetta negli studi di ripresa professionali di alcune grandi compagnie cinematografiche giapponesi, decide di percorrere la strada del cinema indipendente tutto da solo, ma lo fa con una buona scuola alle spalle, soprattutto per ciò che concerne il budget di un film. Da qualche anno finanzia e sostiene la sua compagnia di produzione, la Grand Café Picture, da lui stesso fondata del 2004. In questo modo Takahashi si è messo in assoluta prima linea, scrivendo, dirigendo e producendo, tra gli altri film della Grand Cafè, anche i suoi stessi lavori. Questo gli permette una pressoché totale libertà realizzativa, oltre che una sicurezza economica di facile reperibilità ed affidamento. Nel caso di Confessions of a Dog non sono però, come si potrebbe pensare, le restrizioni distributive e di censura ad avere fatto slittare di tre anni l’uscita del film nelle sale ma, come ha ammesso lo stesso regista/produttore, una sua parziale inadempienza durante la promozione del suddetto. Ci sentiamo comunque di avanzare l’ipotesi che la lunghezza del film (oltre 3 ore) e la delicata tematica trattata, non avranno certamente invogliato i distributori a scommettere da subito su di esso. La principale influenza stilistica e di messa in scena che si può trovare nel film risiede negli yakuza eiga degli anni Settanta di Fukasaku Kinji, vero rappresentate e icona del cinema di genere di quel periodo, anche se molta critica si è sentita di paragonare il film all'americano L.A. Confidential di Curtis Hanson. Sinjuku Triad Society (Miike Takashi, 1995) e Violent Cop (Kitano Takeshi 1989), sono invece due titoli giapponesi più recenti che non possono non essere citati, restando in tema di corruzione della forza pubblica. Nel film di Takahashi la vita di Takeda è rappresentata, nella sua interezza, in modo asciutto e scevro da virtuosismi tecnici o di scrittura. Il particolare realismo con cui è stato realizzato contribuisce, certamente, a coinvolgere lo spettatore nel turbinio di fatti ad azioni illecite che vedono la polizia come motore inconfutabile. Se si esclude l’epilogo, nel quale il regista decide di regalare un monologo quasi decontestualizzato a Sugata Shun, caratterizzandolo da un lavoro di inquadrature più dinamiche, si procede, per il resto, linearmente, in modo semplice. La mano di chi dirige sembra quasi volersi nascondere per lasciare spazio ad immagini e fatti.Nel finale della storia, però, assistiamo ad un’impennata sia sul piano registico che recitativo: Sugata dà sfoggio della sua bravura con un disperato soliloquio, isolato nella sua cella, mentre l’inquadratura lo ritrae con primi piani e piani americani, fino all’ultima carrellata all’indietro, dove pare proprio che lo stesso regista prenda congedo dal suo personaggio, abbandonandolo al suo triste destino. Takahashi ha dichiarato che il film si ispira a realtà davvero presenti e riscontrabili in Giappone. La rete dei gradi di corruzione è mostrata fittissima di contatti e palesemente sostenuta da anni di favoritismi ed illeciti vari. Vari personaggi sono infatti coinvolti e legati indissolubilmente alla crudele e cinica volontà del capo del distretto Mie, il quale riesce ad estendere i tentacoli dei suoi ricatti fino al giudice di un caso che vedeva coinvolto il suo distretto. La stilettata che il film infligge allo spettatore con questa ultima rivelazione è una delle più memorabili: un giudice che ha rapporti con una minorenne, ricattato da Mie e costretto quindi a non fare parlare Takeda (finalmente convintosi a denunciare tutto il distretto) durante il processo a suo carico. Nel meccanismo perfettamente oliato, del quale il povero protagonista è solamente una rotella sacrificabile in caso di necessità, irrompe improvvisamente una variabile incontrollabile rappresentata dal personaggio di Kusama. Il giovane giornalista freelance è testimone di alcune situazioni ambigue orchestrate dalla polizia e si ritrova, dunque, tra le mani qualcosa di molto delicato e pericoloso da gestire. Gli eventi incriminati sono, inoltre, immortalati dalla videocamera di un suo amico fotografo: sarà questa la scintilla dalla quale scaturirà lo scandalo in cui il distretto di Mie e Takeda si ritroverà coinvolto. Ovviamente Mie verrà prontamente a conoscenza del problema rappresentato da Kusama ed incaricherà il fidato Takeda di gestire la situazione. Nella scena di dialogo tra i due, il giornalista verrà dunque invitato (inutilmente) a lasciar cadere nel nulla la questione e ad evitare di divulgare il video di cui è in possesso. Il video in questione mostra chiaramente un fasullo blitz delle forze di polizia per arrestare alcuni malviventi cinesi durante uno scambio di armi: uno dei presunti capi dei malavitosi viene ripreso mentre si allontana furtivamente dalla messinscena, accompagnato verso una macchina guidata dallo stesso Takeda, e fatto sparire alla svelta. Da questa storia possiamo dedurre, tra le altre cose, che la presunta corruzione della polizia, in Giappone, può avvalersi della copertura morale dell’opinione pubblica che mai e poi mai si sognerebbe di mettere in dubbio l’operato di chi, da sempre, vive fianco a fianco dei cittadini e si fregia a protettore del popolo. Anche l’immagine dei poliziotti di quartiere che presidiano i posti pubblici di polizia è ritratta in modo decisamente negativo: uomini senza scrupoli, con i soli obiettivi di facili guadagni e conquiste amorose tra le varie cittadine che, spesso, sfiorano addirittura la violenza. Vediamo così una giovane guardia di pubblica sicurezza (la quale ricorda a Takeda se stesso da giovane recluta) essere completamente traviata dai suoi superiori e convinta, per puro passatempo, a sfogarsi contro dei suoi ex compagni di scuola che l’ avevano preso in giro. La prevaricazione del ruolo sociale nonché etico della figura del poliziotto, raggiunge qui il suo apice: un giovane dal carattere debole si avvale dell’uniforme per arrestare con una scusa un gruppo di giovani e, nascondendosi dietro al distintivo, li malmena.Confessions of a Dog esprime un cinema coraggioso e di denuncia. Un lavoro in cui l’arte si mette al servizio della cronaca, elevandosi a fattore sociale, facendosi altresì carico di un marcato realismo stilistico e di un’etica che raggiunge, con il personaggio di Takeda, alte vette espressive.[Fabio Rainelli]
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