Il "piano" nella Città antica. Il caso di Megara Iblea
di Andrea Carandini
Le città di oggi si sviluppano disordinatamente, senza forma. Questa loro sfigurazione non è altro che l'aspetto monumentale della rendita capitalistica, del dominio assoluto della città sulla campagna, della città al servizio della ricchezza. Sembra così concludersi nel kaos un modo di vivere che era invece sorto come principio del kosmos, quando cioè, all'origine, la città è espressione della campagna ed appare ordinata e al servizio dell'uomo come i campi di un podere ben coltivato.
Questa nascita della città secondo una razionale progettualità è stata dimostrata da due archeologi francesi, G. Vallet e F. Villard, che scavano da anni il cuore di Hyblaea, una colonia greca sulla costa orientale della Sicilia, poco a settentrione di Siracusa.
L'avevano fondata dei coloni che provenivano dalla Megara di Grecia, la dorica madrepatria posta a metà strada fra Corinto ed Atene: una metropoli neonata, visto che da poco vi si era concentrata una popolazione che prima si trovava sparsa per cinque villaggi e per le campagne.
Siamo nell'VIII secolo avanti Cristo, quando sorgono le prime città in Etruria, nel Lazio, in Magna Grecia e nella stessa Grecia. Questa straordinaria rivoluzione urbana è condotta dai primi proprietari privati della terra che la storia della umanità abbia conosciuto.
La ricerca degli archeologi francesi e dei loro collaboratori si è concentrata sul quartiere della grande piazza (agorà) dell'antica colonia. Nove ettari saggiati e quasi tre interamente scavati. Un'impresa intentata, il lavoro di una generazione, ora finalmente raccolto in due grossi volumi (Megara Hyblaea 1. Le quartier de l'agora archaique, École Française de Rome, 1976).
Quando i greci sbarcarono sul sito pianeggiante della futura Megara di Sicilia non vi abitava nessuno. Gli indigeni vivevano per lo più sulle montagne. Se essi erano venuti portando con loro un'immagine di città, avrebbero potuto realizzarla del tutto liberamente, senza alcun condizionamento naturale o umano. Le diciassette case, databili agli ultimi decenni secolo, sono l'espressione materiale tramite la quale possiamo tentare di ricostruire il modello di insediamento che i primi coloni avevano importato in terra straniera.
L'ipotesi degli scavatori è che "i primi coloni occuparono gran parte dello spazio che alla fine del secolo verrà recinto da mura, che risparmiarono fin dall'origine due importanti aree destinate a funzioni politico-religiose (area dei due templi del secolo, sotto i quali sono stati trovati soltanto resti di un villaggio neolitico ed area dell'agorà, leggermente depressa anch'essa e mai occupata da abitazioni), che previdero l'articolazione della città in isolati e grandi assi stradali e che infine costruirono le loro prime case rispettando, prevedendo, una realtà che si sarebbe concretizzata monumentalmente soprattutto a partire dalla metà del secolo. Nulla, infatti, se non la roccia ed uno strato di terra nera, sta ad indicare in positivo la presenza di strade e della grande piazza centrale di questa città che nasce, se non appunto il risparmio del terreno pubblico previsto in quello che potrebbe definirsi il « piano » della colonia. Di positivo ci sono le case dei coloni, costituite da un solo ambiente quadrangolare – (di metri quadri 16), che si apre a sud, costituito da grosse pietre di fondazione e da muri a secco (non da mattoni crudi, come avveniva in Grecia). Il pavimento è di terra battuta, il tetto di strame. La casa era circondata da un «giardino» con silos per il grano e animali domestici. Si tratta evidentemente della casa di una coppia, non di una grande famiglia di più generazioni. Le diverse proprietà sparse nell'area urbana sembrano fra loro diverse, ma fondamentalmente equivalenti. I cittadini ci appaiono di conseguenza pochi, poveri e uguali. Ma quel che più importa dal punto di vista urbanistico è che le case dei primi coloni sembrano rispettare quelli che saranno gli spazi pubblici e la stessa organizzazione interna dei futuri isolati.
Di qui l'idea che un «piano» esistesse fin da principio.
Nella prima metà del secolo osserviamo i primi segni di sviluppo. Le casette monocamera sono ora dotate di uno o due altri ambienti (raggiungendo i 20 metri quadri), il suolo è costituito di arenaria sfranta. La proprietà, incluso il giardino, è ora misurabile (circa 125 metri quadri). Si diffonde l'uso dei pozzi. Sono tutti questi, i segni di una popolazione che cresce in numero e prosperità. L'esperimento « città » funziona.
Nella seconda metà del secolo la polis di Megara raggiunge il suo momento di massima fioritura. Essa fonda nel 628 Selinunte. Le case sono ora di due o tre ambienti (ciascuno di m. 4 per lato), posti in fila perpendicolarmente alle strade, per la larghezza complessiva di mezzo isolato (m. 12). Le porte delle stanze si aprono a mezzogiorno (non vi sono comunicazioni interne) verso una corte (larga m. 6) che ha un ingresso sulla strada. Le proprietà urbane si restringono (metri quadri 70 di media). L'abitato si fa dunque più denso ed esteso e la città perde l'aspetto di una somma di case contadine per assumerne uno nettamente urbano (è probabile che alla fine del periodo compaiano i tetti di tegole).
Il sistema di produzione fondato sulla città consente dunque un notevole sviluppo della produzione e dell'accumulazione. Ne sono una prova vistosa i grandi lavori pubblici che si concentrano fra il 650 e il 620 a.c.. Il primo edificio a sorgere all'incrocio delle due maggiori arterie stradali è un heroon (probabile luogo di culto dell'eroe fondatore della colonia), cui segue una stoà (loggiato), un edificio amministrativo (non dissimile dalla regia nel foro romano e dall'edificio dell'agorà ateniese). La grande piazza di Megara non è più uno spazio libero, ma è ormai un centro monumentale della vita comune religiosa, civile, politica, giudiziaria della città. Gli edifici religiosi e civili seguono le regole dell'architettura greca.
Stupisce la mancanza di ogni aspetto commerciale e artigianale, perché le nostre città sono figlie delle città medievali, dove questi aspetti erano centrali. Nella città antica invece “lo Stato deve esercitare il commercio per il suo proprio interesse e non per interesse di altri. Quelli che aprono il loro mercato a tutti lo fanno in vista del guadagno: ma lo Stato non deve partecipate a tale forma di arricchimento” (Aristotele, Politica). Dove la ricchezza è al servizio della città e non viceversa, la piazza sarà libera da mercanti e mercanzie, cui si destineranno aree marginali. Al tempo di Aristotele questa realtà vive più nella teoria che nella pratica, mentre il contrario doveva succedere nella città arcaica.
Si tratta ora di vedere cosa significa questo sviluppo urbano sul piano dei rapporti fra gli uomini. Quando una società si basa sulla proprietà privata di tutti i mezzi di produzione e di sostentamento, presuppone automaticamente la possibilità di accrescere o di perdere questa condizione di proprietà. Sorgono allora i ricchi e i poveri e con essi gli antagonismi fra le diverse parti sociali. La «lotta di classe» fra pacheis (grassi) e il demos (popolo) avrà non solo riflessi interni, quali il passaggio dall'oligarchia alla tirannide, ma anche esterni, quali i conflitti fra le diverse poleis (ad esempio fra Megara e Leontinoi).
Con il VI secolo non si conoscono costruzioni di case nel quartiere dell'agorà. Si tratta di una specializzazione in senso pubblico di questa parte della città — si domandano gli archeologi — o di una crisi della polis nel suo insieme? Forse di ambedue le cose (ma per essere più precisi occorrerebbe scavare anche i quartieri periferici di Megara). Il conflitto con Siracusa darà il colpo di grazia a questa piccola ormai e fragile città che si era inutilmente circondata di mura: Gelone distruggerà Megara nel 483 a.C. La città risorgerà, più piccola, nel IV secolo e sarà distrutta nel 213 dal romano Marcello. La campagna si riprenderà allora e per sempre quel che i coloni greci le avevano tolto. Le uniche costruzioni che fino all'età bizantina sorgeranno sulle rovine della città ellenistica saranno appunto delle fattorie.
Da quanto si è detto, si intende facilmente il grande valore delle indagini di F. Villard e di G. Vallet. Esso consiste certamente anche nella grande estensione dello scavo che ha permesso di conoscere un intiero quartiere. Ma proprio in relazione all'estensione dello scavo nasce il problema più drammatico per ogni archeologo. Come assicurare il più stretto rigore stratigrafico, facilmente ottenibile in saggi limitati, nelle grandi estensioni? È questo un problema in larga misura non risolto e che quindi neppure i due archeologi francesi potevano risolvere. Ma il problema resta. Nuovi esperimenti fanno tuttavia presentire una rivoluzione nella tecnica di scavo e nei metodi di pubblicazione.
Verrà dunque forse un giorno in cui si presterà altrettanta attenzione alle parti molli (gli strati) che alla struttura ossea (i muri) di un insediamento. Le une verranno scavate ed edite in organica connessione con la seconda senza privilegiare fasi storiche particolari, ma di seguito, secondo l'ordine di tutte le azioni umane e naturali che hanno appunto composto la città nel suo sviluppo, dall'inizio alla fine. Allora gli “sconvolgimenti” delle successive azioni edilizie e di vita appariranno come qualcosa di razionale e conoscibile e non più come una disordinata opera di distruzione che una generazione opera su quanto la precedente ha costruito.
La cura stratigrafica (penso agli esperimenti di M. Gras e H. Tréziny a Megara) diventerà il costume abituale, imprescindibile etica dello scavatore. Allora anche le più fragili strutture, in argilla e legno, e i più modesti aspetti della vita materiale verranno rivelati ai nostri occhi (come ha imparato a fare l'archeologia europea). I risultati dello scavo comporranno allora una narrazione continua nella quale anche il più piccolo fatto contribuisce, come un mattone, alla ricostruzione storica di quell'organismo che è una città.
Allora lo scavo archeologico apparirà come una operazione chirurgica sulla terra e la terra apparirà non più come un serbatoio di documenti ma come una realtà vivente. Ma per ragioni storiche siamo ancora assai lontani da tutto ciò, specialmente sulle sponde del Mediterraneo. Ciò non toglie che entro i limiti posti da una certa fase dei nostri metodi scientifici, del lavoro di alta qualità possa esser fatto. Ed è davanti ai migliori risultati che viene la voglia di andare ancora avanti.
- Andrea Carandini - 20 novembre 1997 -