Poesia ceca: Vilem Zavada

Da Paolo Statuti

Vilém Závada

   Per il centesimo post del mio blog ho rispolverato con grande piacere la mia tesi di laurea dal titolo: Vilém Závada – Disfacimento e rigenerazione (Università degli Studi di Roma, Anno accademico 1974-75, relatore: prof. A.M. Ripellino).

   Conobbi personalmente il poeta a Praga nell’aprile del 1974 e l’impressione che ne riportai, unita a quella ricavata da quanto letto su di lui, mi suggerì l’immagine d’un vulcano perennemente attivo e al tempo stesso di una delicata distesa di fiori sotto un cielo sereno. Un animo in perenne tumulto che si esterna e si concretizza in una continua messe di poesie demolitrici e insieme rigeneratrici. Uno sguardo profondo e vigile, come dinanzi a un pericolo eternamente incombente.

   Vilém Závada, poeta, scrittore di libri per l’infanzia e traduttore da molte lingue, nacque il 22 maggio 1905 a Hrabová presso Ostrava – città di montacarichi e di ferriere eruttanti nembi di fumo di giorno, e vampate di fuoco di notte, città situata in una regione di verdi prati, di campi di patate e fulve distese di frumento. Entrambi questi mondi lasceranno profonde tracce nella personalità umana e poetica di Závada.

   Nel 1923 conseguì la maturità presso il liceo classico di Ostrava. Ebbe fortuna con il professore di ceco – lo scrittore Vojtěch Martínek, che con le sue lezioni destò in lui l’interesse per la letteratura ceca e il desiderio di dedicarsi allo studio delle lettere. Entrò alla facoltà di filosofia dell’Università di Carlo a Praga. Come studente di filosofia e di storia della letteratura, l’esordiente poeta si occupa in particolare dell’opera di Václav Šolc e di Otokar Březina. Sul primo scrive la sua tesi di laurea, il secondo lo entusiasma con i fuochi d’artificio delle metafore e con la vastità del cosmo poetico, come indica il suo studio “Sulle orme di O. Březina” (1929). Terminati gli studi, si iscrisse alla scuola statale per bibliotecari, conseguendo il diploma nel 1927. Nell’ottobre dello stesso anno, con l’aiuto di Seifert, ottenne il posto di segretario presso la casa editrice Aventinum.

   Grazie a Nezval, Závada entrò a far parte del Devětsil, associazione di artisti cechi di avanguardia fondata a Praga il 5 ottobre 1920, che ebbe all’inizio tendenze proletarie e successivamente poetistiche. Anima di questo gruppo era Karel Teige, uomo estremamente dotato e colto, che manteneva legami con le avanguardie in Francia e in Unione Sovietica, nonché in altre parti del mondo.

   Nel maggio del 1924 Teige scrisse il suo programma poetistico. In esso tra l’altro si affermava: “Il poetismo esclude dalla poesia sentimento e ragione, fa appello alla immaginazione creativa, alla fantasia: le restituisce tutto il suo diritto, ma per questo esige da essa prestazioni elevate…Il poetismo non vuole essere una corrente, e in nessun caso neanche un metodo estetico, ma un “modus vivendi”, “igiene spirituale e morale”, “stimolo di vita” e quindi, in fin dei conti – vita”.

   Ma al tempo in cui Závada entrava con Halas a far parte del Devětsil, il programma poetistico andava esaurendosi. Teige stesso cominciava a inclinare più verso i problemi dell’arte figurativa e verso l’architettura, benché amasse sempre di più la poesia.

   Alla fine del 1927 il ventiduenne poeta esordì con la raccolta “Panichida” (Requiem), apparsa contemporaneamente a “Sepie” (Seppie) di Halas. Nei due poeti, come anche in V. Holan che, dopo il gioco poetistico “Blouznivý vějíř” (Il ventaglio delirante, 1926), giunse poi a quella confessione della sua tragica generazione che è la raccolta “Triumf smrti” (Il trionfo della morte, 1930), tornano incessantemente le immagini allucinanti della morte bellica, ancora più cupe e spettrali, in quanto emerse dalle esperienze infantili.

   A differenza dalla spensieratezza verbale, dalla voglia di giocare poetistica, la poesia di Závada esige un maggior rigore, è spietata con se stessa laddove vuole esprimere tutta la tristezza del suo tempo. Essa è direttamente costruita sul conflitto, sull’antinomia di esistenza e coscienza; da un lato la materia è descritta in tutte le sue forme, ma specialmente nella sua deperibilità e distruzione, dall’altro si manifesta l’anima, prigioniera della materia stessa. Mediante l’analogia il poeta confronta, intreccia e collega nozioni e concetti del campo sociale e spirituale.

   Dal mondo delle miniere e degli stabilimenti siderurgici deriva la predominante sonorità dei suoi versi: sono intenzionalmente non melodici, ammassa disarmonici gruppi di consonanti, il ritmo è incerto, la rima è spesso sostituita da un’assonanza.

   La seconda raccolta di poesie – “Siréna” – esce nel dicembre del 1932. Ritornano in essa, con maggiore intensità, le stesse pessimistiche, cupe e strazianti allucinazioni di nullità già trovate in “Panichida”. Scrive A.M. Ripellino nella sua “Storia della poesia ceca contemporanea”: “Per Závada il mondo è la riproduzione concreta di un allegorico inferno, torbido e spettrale luogo di pena, angusto spazio profanato dagli spiriti della bruttezza e della volgarità…Colpisce in Závada, come in Halas, l’ampiezza del barocco: barocco nel senso della vanità e dell’inferno, nel materialismo e insieme nell’estasi dell’anima dinanzi al mistero, nel culto del disfacimento corporale e nel fanatismo della morte…Da questo cerchio di maledizione Závada non riesce a svincolarsi, nonostante la sua ansia di riscatto e la fede nella trascendenza divina”.

   In “Siréna” si avverte Baudelaire. Sentiamo la sua influenza non solo nel culto così esuberante della putrescenza, della ripugnanza. Questo poeta che considera l’immaginazione “regina di tutte le facoltà”, riesce parimenti ad imbrigliarla, si ribella al gusto classicheggiante, ma ne accetta le forme. Anche in Závada, allo sbrigliato andamento di “Panichida”, segue in “Siréna” una rigorosa disciplina metrica e strofica. Il poeta sottoporrà questa raccolta a una redazione molto critica e la pubblicò di nuovo nel 1950. Sotto molti aspetti è un’opera nuova. Egli non solo toglierà una serie di poesie, ma modificherà anche stilisticamente molti altri versi, privandoli soprattutto della loro descrittività, illuminandoli semanticamente.

   Nel 1937 uscì la terza raccolta di Vilém Závada – “Cesta pěšky” (Strada a piedi). In essa le immagini apocalittiche delle prime due raccolte assumono il volto concreto del mondo colpito dalla crisi economica. Si avverte la sensazione angosciosa delle prossime scosse e catastrofi sociali. Ma la stessa consapevolezza del pericolo gravante sul mondo e sulla patria, stimola in lui uno slancio lirico di fiducia nella vita. Egli si libera dal senso di eterna maledizione, dai fantasmi della disperazione, rifugiandosi nell’amore e nella natura. Qui egli supera il profondo scetticismo delle prime due raccolte e trova una nuova missione per la sua poesia, e ciò gli consente di terminare la raccolta con i versi: “Suono il corno della fiducia/sulla terra nelle serate nuvolose”.

   Per il volume “Hradní věž” (La torre del castello), uscita nel 1940, e considerata da molti il libro della maturazione poetica, fu assegnato a Závada un premio nazionale. In questa poesia nata durante l’occupazione nazista, il poeta per eludere più facilmente la censura, si esprime con allusioni, con parabole. Egli cerca sostegno nei valori più essenziali della vita umana, nell’amore della madre, nella salda coesione della famiglia. Tipico in questa raccolta è il simbolo dello scalpellino, che dal più duro materiale roccioso deve faticosamente ricavare i blocchi per il corale d’una cattedrale gotica. La bellezza deve essere innalzata, scolpita nella solida pietra.

   Nella seconda metà degli anni di guerra il poeta compone una raccolta in cui con tutte le forze vuole uscire dalle tenebre dell’occupazione. Lo indica già il titolo simbolico “Povstání z mrtvých” (La risurrezione dei morti). Questo libro significò al momento della sua pubblicazione, nella primavera del 1946, il primo passo nell’epoca socialista, “l’ora grave” della rigenerazione nello sviluppo poetico di Závada. La risurrezione della vita e dell’umanità dalle rovine della distruzione – è il patos di questa raccolta.

   Nel 1950 Závada pubblica la raccolta “Město světla” (La città della luce). Qui il poeta caratterizza così il suo metodo creativo: “Io direi che non scrivo. Per me l’arte poetica non consiste nello scrivere. In me la poesia nasce da alcune impressioni a lungo maturate. Devo partorire la poesia come una madre il bambino. Le singole impressioni si sviluppano gradatamente come una fotografia, e solo a sviluppo ultimato si traducono in versi. Per me non si tratta di sedersi al tavolo e iniziare da qualche idea fugace a fare poesia”. La poesia per Závada è più il frutto di un lungo, paziente lavoro, che il risultato d’una ispirazione improvvisa. Ora il poeta brama un mondo in cui l’uomo, reso infermo dalla guerra, guarisca quanto prima con l’ozono dell’amore e della fratellanza, in cui la gente cominci finalmente a sfruttare “i suoi pozzi solari”. Il lirico scopre l’incanto della realtà quotidiana e le sue note si fanno più limpide, più melodiche, soprattutto nella lirica intima e della natura, e nel suo canto, un tempo così amaramente malinconico, brilla anche un estro scherzoso.

   La raccolta “Polní kvítí” (Fiori di campo), pubblicata nel 1955, formalmente e artisticamente è una decisa reazione al passato. In armonia col titolo, il poeta ama ora le note semplici, assai familiari, che appaiono sature di fervido accento umano. L’amore per la vita e per l’uomo è la fonte stessa e il senso di queste strofe di Závada. Anche se, a detta di alcuni critici, nonostante tutta la loro concretezza e attrattiva, i versi di “Polní kvítí” sono eccessivamente semplificati e alquanto compiacevolmente soggetti alle ricette in voga della poesia socialista, essi tuttavia, almeno in diverse parti della raccolta, ci appaiono come l’espressione sincera e appassionata di un poeta che crede fermamente nella capacità dell’uomo di elevarsi e perfezionarsi, ed è una chiara dimostrazione di “affetto” poetico.

   In “Jeden život” (Una vita), raccolta uscita nel 1962, Závada tenta, sfruttando pienamente le sue capacità d’immergersi a fondo nell’intimo umano, di creare una parabola, il cui senso sia il quadro più completo dell’uomo del ventesino secolo. L’intera raccolta conferma la grande importanza della terra natia e delle esperienze infantili per il poeta. Ritroviamo l’antica bipolarità della poesia zavadiana. Da un lato la terra carbonifera, la nera regione sulla quale è eternamente nuvolo, dall’altro la terra ubertosa, con le distese di grano, coi boschi silenziosi e le serate tranquille. Si può dire che “Jeden život”, più che l’apertura d’una nuova strada, rappresenta la sintesi e la chiusura di una particolare fase evolutiva del poeta – quella che conduce a una più profonda comprensione della vita.

   Nel tessuto della penultima raccolta di Závada – “Na prahu” (Sulla soglia, 1970) risultano particolarmente due immagini, che sotto forme diverse si richiamano ai suoi inizi poetici: lacrime e sole. “E sono rimasto per sempre un corpo fatto pianto”, confessa l’autore nella poesia introduttiva. Il sole sorge invece come principio ristoratore e vivificante. Ciò che più colpisce in questa raccolta di Závada è il suo non sminuito coraggio di guardare in faccia l’inesorabile destino. La vicinanza della morte elimina le illusioni, ma accresce allo stesso tempo l’amore per la vita. Il poeta sottolinea che “il mondo non è luogo di feste né di sagre…” Ma alla transitorietà umana sopravvive il moto dell’eterno rinnovamento della vita: “Cade foglia dietro foglia – l’albero è lì e non si cruccia/Lui stesso in autunno le spargerà per il fogliame della nuova primavera/Scorre via lo sconforto delle acque e le rive non si dolgono/di perdere nel mare il volto e il nome/Se ne andranno gli uomini – ma le strade resteranno/Passa l’acqua dei fiumi – ma la fonte continua a sgorgare”.

   L’ultima raccolta pubblicata da Vilém Závada è “Živote, díky” (Grazie, vita, 1977). Soffusa di moderato ottimismo, è un sereno bilancio esistenziale, un lirico addio, con un sincero ringraziamento alla vita e al lavoro creativo dell’uomo.

   Concludo lasciando la parola al poeta stesso: “Non vorrei mai restarmene in disparte. Non vorrei nemmeno sedere su una panchina a beffeggiare. E nemmeno vorrei essere in un tempio di adepti del demonio. So che nella nostra vita c’è anche molta assurdità, ma c’è in essa anche un senso preciso, c’è in essa anche molto desiderio di ordine. Forse questo desiderio a taluni sembrerà ingenuo, ma io vorrei più volentieri passare il tempo con le persone ingenue, che essere furbo e per di più glacialmente indifferente. L’arte può avere un effetto benefico o non averlo affatto. Sarei felice se i miei versi aiutassero anche solo di un’inezia le forze sane della vita”.

   Vilém Závada è morto a Praga il 30 novembre 1982.

     Paolo Statuti

Poesie di Vilém Závada tradotte da Paolo Statuti

Pastello

L’autunno

scuote via le foglie

per l’offerta funebre.

Il cielo è aperto come un ombrello.

Sotto di esso mi rannicchio e sento

la grande migrazione dell’amore

dai boulevard,

dai lidi della carnagione illuminata

verso il focolare fiammeggiante,

fino al cuore.

Solo le zanzare fievolmente ancora ronzano,

come se lontano in qualche luogo

nella nebbia piangessero bambini per il freddo.

(Panichida)

Notturno rinascimentale

O cielo maligno come il sorriso di Monna Lisa

inarca un argine sul purgatorio umano

Sotto le pieghe classiche della toga azzurrina

l’Olimpiano nella polvere come un serpe si contorce

Sazio ormai del dolce incanto della linfa faunesca

adora il vitello d’oro l’autore delle bellezze

commosso dal paradiso di uccelli nei boschetti presso Assisi

Per contagio dei cieli gli si intenerisce la voce adulatoria

La malvasia di denso sangue lo aizza come un’arpia

a lungo fino all’alba dopo le orge delle glandole

Potesse annientarlo il serafico tallone di Maria!

O poeta che peschi il cielo negli specchi

non temere le sfere dove sfavilla il gelo

In basso i limpidi vetri ti appanna il fiato umano

(Siréna)

I funerali del poeta

(In memoriam di Otokar Březina)

Il Giovedì santo

da chiese di campagna e cattedrali

volano gli scampanii fino a Roma

La quieta marcia funebre

del funereo corteo

che si avvia

nella terra del poeta

al cimitero

comincia a risonare

come il gracidio di raganelle

la settimana santa

perché l’anima del campanaro

è volata via fino all’eterna Roma

Il cielo

indossato il crinito mantello della pioggia

piange

Jakub Deml in paramenti neri e dorati

celebra la solenne messa da morto

e piange

Un luttuoso corteo di poeti

accompagna il suo ammiraglio all’estrema dimora

e piange

E le lacrime scorrono

sui volti cinerei

e le lacrime fluiscono

sulla terra raggrinzita

così lentamente

così lentamente

come aprendosi la strada tra le rughe delle vecchie

che piangono così sottovoce

perché sanno

che ormai col pianto non otterranno nulla

perché sanno

che col pianto non cambieranno nulla

Ma nel fulgore

del sorriso spirituale del poeta

il pianto si muta in arcobaleno

che insegna di pace

sventola sul bastione del cielo

E il poeta

avvolto nel vessillo dell’iride

che è il tricolore nazionale

della sua patria celeste

sommessamente dice:

V’ho portato la mia staffetta

ed ora me ne vado

Perché piangete?

E la brezza

che incensa la sua bara

pian piano sussurra:

Dio lo invidiava agli uomini

per questo lo ha chiamato a sé

riservandogli un aureo seggio

nello stato maggiore degli angeli

E la Terra

che dietro di lui per sempre si chiude

i superstiti afflitti consola:

Increduli perché piangete?

Non è morto

ma dorme

e nel mio cupo palazzo

avrà pace eterna

Ogniqualvolta vi sentirete morire

il vostro cavaliere vi verrà in aiuto

con il cuore e con lo spirito

Ma come credere ai consolatori

se essi stessi piangono?

(Siréna)

Le rose

E’ per legge o per celia

che le rose han sempre un così bel profumo?

Le rose sono forse una splendida rima

alla fine d’un misterioso poema,

oppure un prodigio occulto

materializzato d’un altro mondo.

Così poco si sa di esso,

e fioriscono ogni estate.

(Cesta pěšky)

Il lettore di poesia

Cielo azzurrino per le campànule pratensi

Verso sera siedi sull’erba

e vorresti leggere

quando il vento volta la pagina

e sui ginocchi

hai il libro aperto del cielo

Là le poesie delle nubi scorrono

nell’azzurro infinito

In esse il balenio delle stelle

Da esse una lacrima cade sulla terra

Al di sopra vedi avvampare

la maestà celeste

Vorresti leggere oltre

quando il vento volta la pagina

e sui ginocchi

hai il libro aperto della terra

Nella brughiera tra le pinete

si elevano al cielo dallo zolfo

di massi erranti i menhiri

misteriose metafore

di dolore pietrificato

nella poesia del paesaggio turchinamente inscurito

Tutto da capo vorresti leggere

quando il vento volta la pagina

e sui ginocchi

hai il libro aperto della poesia

Dietro la luce delle frasi melodiose

senti il singulto del buio vibrare

e negli spazi bianchi tra le righe

nei versi che indietreggiano

dinanzi alla gloria del cielo e al servaggio della terra

le pause di fronte al mistero

(Hradní věž)

La caduta

Volano nel buio sfavillanti meteore

staccatesi da stelle languenti.

Nel solenne irradiamento delle città

il polverio di luce prima del temporale.

E un vento nero spazza via dalle strade

con la sabbia i manifesti strappati

e il fogliame degli uomini turbinanti

e in cartocci contorto,

con un vermetto nel cuore.

Cadono i regni,

cadono i governi,

non volano in silenzio,

tuonano le cannonate.

E intanto dalle tane e dai sotterranei

dei bianchi,

neri

e bruni continenti

una nuova umanità si accalca

ed occhi febbrili cercano.

E qui dal buio materno,

dalle nebulose dei pallidi volti

in cielo nuove stelle salgono

e splendono.

(Město světla)

Senza nome

Il mio nome non è sui manifesti,

e neppure salgo sulla scena.

In abiti comuni cammino,

vivo come la gente comune

che ha costruito in tempi remoti

castelli e poderosi baluardi,

sepolcri per le salme degli eroi,

acquedotti e cattedrali,

in guerra avanzava con le sue armi

e negli scontri era salda come roccia.

I suoi nemici uccideva in battaglia

finché la terra intera sussultava.

Lacerata tornava alla sua casa,

e come a un mutamento ne segue un altro,

spaccava di nuovo pietre nella cava

per le città distrutte dalla guerra.

Ad essa nessuno ha eretto una statua,

un monumento di bronzo colato.

Benché sprezzasse del tutto la fama,

un monumento si creò con le sue mani.

Quel monumento – montagne rimboscate,

barricate intrise di sangue,

nei verdi campi bianchi casolari

e la terra coltivata come un giardino.

Il mio nome non è sui manifesti,

e neppure salgo sulla scena.

In abiti comuni cammino,

vivo come la gente comune,

ma fieramente traspare dal mio volto,

nei miei occhi risplende immutata

quella forza di migliaia d’ignoti,

la fama della gente senza nome.

(Polní kvítí)

                                                                                                                                                             Miosotidi

Così m’hai bruciato con gli occhi,

che sono come terra nei ruderi.

Vedi come ciò da me fuma

e come il fuoco verso di te s’impenna?

Nuovamente di te sono tutta incantata.

Sei giunto come un grande fiume.

L’acqua mi ha corroso le ginocchia

e mi porta chissà dove lontano.

Il fiume scorre sempre più oltre

e l’acqua si rigira e gira,

ma sulla riva dietro di essa son rimaste

miosotidi azzurre di occhi infantili.

(Polní kvítí)

Autunnale

L’autunno è quasi senza soldi.

Già ottobreattinge dagli ultimi.

Alla fine organizza un ballo

e di nuovo sarà un tripudio.     

Foglia con foglia giunge truccata

e volteggia come sul parquet.

Vedi le spalle nude di donne

nel chiassoso abito da ballo?

I capelli arruffati sul capo,

dall’alto cadono, ma cadono

e scompaiono nel buio sull’erba,

prima che termini la mascherata.

Come cadono le foglie autunnali

sempre chissà dove qualcosa cade.

Come pietrine sonore risuona

anche quella serenata per piano.

Di folle musica geme il bosco.

Come metallo tintinnano le foglie.

Dall’alto percuote i tasti

la mano focosa del pianista.

(Jeden život)

Erba nei ruderi

Cadono gli dei gli angeli i titani

Cadono i re i principi i tiranni

Cadono le stelle cade la fuliggine cade la neve

La terra è una nuvola caduta di polvere pietrificata

E il mare un cielo precipitato liquefatto

Non c’è altra fine che la decomposizione e la caduta

Ma nei ruderi verdeggia eternamente l’erba

Su di essa all’alba scintillano goccioline

limpide come rugiada pure come lacrime

Gli uomini si amano nelle guerre e nei terremoti

e la fonte della vita scaturisce anche dal fondo dell’inferno

Nessuno arresterà ciò che è maturo per la caduta

Nessuno fermerà ciò che si fa strada a fatica verso il cielo

(C) by Paolo Statuti



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