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Poesia e metafisica

Da Narcyso
29 aprile 2014

Poesia e metafisica

di Corrado Bagnoli

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A partire anche dalle ultime riflessioni pubblicate su queste pagine, credo che sia utile riaprire una discussione dentro la quale possano trovare spazio alcuni concetti fondamentali relativi al linguaggio poetico oggi e all’esperienza poetica in generale. Per entrare subito nel merito, a proposito dell’esistenza di una poesia che intenderebbe presentarsi come metafisica o spirituale io credo proprio che non ci possa essere una poesia che non sia, appunto, metafisica o spirituale. Se non c’è metafisica e spirito non c’è poesia, ma occorre intendersi circa questi termini, non c’è infatti poesia neanche laddove si parli di ciò che dovrebbe stare oltre il mondo, cioè di un non ben identificato altrove spirituale: non è che una poesia è in sé metafisica perché usa parole come eterno, oltre, altrove, ecc. Le parole non danno una patente di spiritualità, anzi, piuttosto, certe scelte lessicali e contenutistiche che testimoniano una distanza dalla realtà, dall’esperienza, lasciano intendere che qualcosa si è perso. E non è semplicemente il dato, il reale, l’esperienza che vengono persi, perché quando una poesia smette di essere un diario di questa realtà, non può nemmeno rendere conto di ciò che la fonda. La poesia non può essere che una cosa che assomiglia all’incarnazione, cioè una parola che ripresenti in sé il particolare e l’universale, la carne e lo spirito. Anzi credo proprio che l’incarnazione sia il luogo della poesia, del venire alla luce delle cose dall’ombra.
La realtà, la foglia, questo phon che mi assorda dal bagno, questo caldo che ci azzanna improvviso e ci lascia indifesi, le cose insomma parlano oggi, ma la lingua in cui parlano è da scrivere ancora, da scrivere oggi. Il manifestarsi di questa realtà oggi è l’esperienza molteplice che mi costituisce ed è anche la tradizione grazie alla quale oggi incontro le cose e le faccio parlare nella loro fisicità. Questo è il termine che secondo me occorre indagare: la trascendenza della parola, il suo essere dentro il mondo e capace di fondarne uno nuovo, sta nella sua fedeltà al mondo. Che non significa “dire pane al pane e vino al vino”, ma può, anzi deve, voler dire chiamare dentro il pane altro da sé, così come nel vino. La trascendenza della poesia è fondata sulla fisicità, sulla materia. Oggi lo spiritualismo, spesso sempre più simile ad un eclettismo pseudoreligioso fai da te, contribuisce a cancellare la realtà e dunque non è più capace di trovare, anzi spinge nell’insignificanza quella trascendenza. Sta in questo il compito di chi scrive, come anche quello degli altri uomini, in una sorta di resistenza: questa è l’epoca dell’assenza di un pensiero e di una poesia che rinominano la realtà e la fondano di nuovo, perché le cose esistono meglio quando vengono raccontate, ridette, testimoniate. Testimoniare, cioè “provare, rendere vero il dono” è un altro dei termini che dovrebbe stare al centro della nostra riflessione: testimoni del qui, dell’adesso, testimoni dell’ombra che sta prima o del destino che proiettiamo in avanti.
Abbiamo troppi secoli di riflessione estetica per illuderci ancora di potere dire in maniera apodittica cos’è la poesia; e per fortuna la storia sta lì a dimostrare che la poesia è stata una cosa, poi un’altra, poi un’altra ancora. Cercare di capire che cosa di comune sta dentro queste diverse esperienze è un’altra impresa quasi impossibile, comunque passibile sempre di errori, contraddizioni e correzioni infinite. Ma il nostro compito non è quello di dare una definizione essenzialista. Il nostro compito è quello di dire che cosa oggi, qui e ora, per me, conta davvero, in relazione alla mia esperienza umana e a parole come realtà, necessità, lingua e pensiero, dialogo con il destino. C’è un punto comune in questi sentieri interrotti?
Heidegger, appunto, nei suoi Holzwege, dice più o meno che fare esperienza di un’opera d’arte, significa incontrare un mondo nuovo e provare ad abitarci, perché il senso dell’arte è l’accadere di una radicale novità sul piano dell’essere-nel-mondo, è la fondazione di questo stesso essere nel mondo.
Seguendo Heidegger, quindi, la fruizione dell’opera è un incontro: l’opera d’arte fonda un mondo in quanto fonda un nuovo sistema di significati, l’incontro con essa è come l’incontro con una persona, nel senso che essa non si inserisce semplicemente nel mondo com’è, ma rappresenta una proposta di nuova e diversa sistemazione del mondo, anzi, l’opera è un mondo. L’opera è una forma vivente e la sua fruizione è dialogo e interpretazione. Questo essere un mondo a partire dal mondo, questo essere dentro e al contempo stare fuori, questo tenere insieme la luce e il buio – tenere insieme la selva come la chiama Rella in un suo suggestivo saggio – è possibile perché la parola poetica, più di ogni altra, è la manifestazione della dimensione della trascendenza, proprio però rimanendo fedele all’immanente. In termini quasi idealistici, ma assolutamente condivisibili, Rosario Assunto parlava nel suo bellissimo Intervengono i personaggi di un reale assolutamente ideale perché totalmente reale, di ideale proprio in quanto reale. Ma ancora una volta indicando con il termine realtà non una cosa data una volta per tutte, ma già attraversata da altro, già ricreata nell’atto di nominarla.
Tutto questo non serve forse ancora a dire che cos’è la poesia; ma mi aiuta a dire che cosa non lo è.

Ripartire da qui significa partire da un ascolto, da una fedeltà a ciò che c’è, alla realtà in cui mi trovo immerso. Se il primo compito della lingua è questa fedeltà alla terra, alla lingua, essa ha il dovere di ascoltare. Non è un ruolo passivo, perché appunto, la lettura di ciò che mi circonda, come la lettura di un libro, non è mai una mimesi, ma appunto, ri-produzione. Perché questo accada, però, chi legge la terra o la realtà, chi vive insomma, deve avere dentro di sé la coscienza dell’altro. E’ la dimensione della trascendenza che consente di fare questo: chi è totalmente immanente al dato non ha la forza, la possibilità di trapassarlo, di ricrearne anche uno nuovo. Per questo credo che la più grande opera educativa, per tutti, stia nell’indicare che l’uomo non può essere ridotto a ciò a cui tutti i poteri lo vorrebbero ridurre per poterlo manipolare. La dimensione della trascendenza è ciò che permette di produrre senso, ed è su questo che si fonda la possibilità e la forza del linguaggio poetico: è l’affermazione di un di più per cui è fatto l’uomo, una felicità che non c’è e a cui però ci si sente destinati. Penso a Leopardi che aveva gli strumenti che la sua età gli consentiva di avere: un’ideologia illuminista e materialista a cui pure aderiva, ma che non sentiva corrispondente al suo desiderio profondo; una lingua che conservava, come è logico che fosse, tracce del passato, ma che egli reinventa proprio nella prospettiva a cui il suo desiderio e il suo pensiero lo portano, con i particolari, i dettagli della realtà che acquistano un senso nuovo.
Raccontare nella fedeltà non significa acquietarsi, accontentarsi del dato, essere passivi, insomma.
E’ la condizione per non essere sopraffatti e annichiliti dall’esistente, perché si possa partecipare ad esso indicando una tensione altra, a cui siamo destinati. Tutta la poesia inessenziale è quella che non prende su di sé questo compito, che nega alla radice questo destino della parola e dell’uomo.
Ciò che è necessario salvaguardare è la condizione per cui la lingua possa essere “sovversiva” e questa condizione, questa possibilità è per me manifestata dentro quel concetto di trascendenza che fonda la possibilità di pensare altro. E di raccontare quello che c’è non come vogliono farmi credere che sia, dando anche una direzione, un senso ulteriore dell’esistente. L’immaginario, il suo linguaggio è un esercizio di resistenza nella difesa contro tutti i riduzionismi a cui siamo sottoposti: ideologici, sociologici, oggi tecnicistici e scientisti. Noi siamo di più, l’uomo è di più. La poesia, quella gigante, quella che non possiamo dimenticare, è lì ad indicarcelo.
Nella lingua ebraica la parola che indica la misericordia significa anche doppio utero, doppia accoglienza: l’accoglienza, la fedeltà che si apre all’altro, che trascende il dato e pone la possibilità di un nuovo senso, che dà alla luce, è forse questo il modo in cui la poesia è fedele alla realtà e si apre a un destino che va oltre questa stessa realtà. E’ forse così che essa diventa poesia davvero, e dunque poesia metafisica.
L’ultima volta che mi è capitato di rileggere I limoni di Eugenio Montale per i miei alunni, e poi anche per un pubblico numeroso e non abituato alla poesia, mi sono soffermato sul fatto che in essa è contenuta una dichiarazione di poetica che potrebbe indicare con chiarezza il percorso che qualunque poeta deve intraprendere se vuole essere autenticamente impegnato nel compito di vivere e scrivere per sé e per gli altri, e potrebbe anche riassumere quello che qui ho cercato di scrivere . Eugenio Montale è annoverato tra i poeti che negherebbero la possibilità di conoscere la verità e, dunque, apparentemente lontano da quanto detto fino a qui; ma la poesia vera è sempre più grande dell’ideologia anche esplicita del suo stesso autore, potremmo dire che essa è sovrabbondante rispetto alle sue stesse intenzioni. A me sembra infatti che proprio lo scettico Montale ( con tanti altri insieme a lui, naturalmente, ma qui prendo solo la sua poesia ad esempio) sia in grado di indicarci le tappe che ogni poesia deve compiere per rispondere con verità al destino cui è chiamata.
Provo a spiegarmi, allora, rileggendo la poesia di Montale.

Ascoltami, i poeti laureati
si muovono soltanto fra le piante
dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.
lo, per me, amo le strade che riescono agli erbosi
fossi dove in pozzanghere
mezzo seccate agguantano i ragazzi
qualche sparuta anguilla:
le viuzze che seguono i ciglioni,
discendono tra i ciuffi delle canne
e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.

Innanzitutto c’è un moto, c’è un cammino da compiere per inoltrarsi nella realtà: fare poesia è andare incontro. E scegliere le strade poco usate, praticare le cose e i nomi di ciò che è apparentemente poco significativo. Il pensare poetico si muove dentro la realtà cercando i dettagli, cercando la pietra scartata dai costruttori per poterne fare poi, eventualmente, la pietra angolare.

Meglio se le gazzarre degli uccelli
si spengono inghiottite dall’azzurro:
più chiaro si ascolta il sussurro
dei rami amici nell’aria che quasi non si muove,
e i sensi di quest’odore
che non sa staccarsi da terra
e piove in petto una dolcezza inquieta.
Qui delle divertite passioni
per miracolo tace la guerra,
qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza
ed è l’odore dei limoni.

La realtà parla, ma è necessario il silenzio; le sue parole sono per chi sa ascoltare e può trovare la pace nel silenzio. E in quel silenzio appare in tutta la sua materialità l’odore dei limoni, accade in noi una dolcezza inquieta: la forza della realtà sta nella sua fisicità, ma nello stesso momento, nel suo essere segno. Le cose indicano già altro con il loro corpo.

Vedi, in questi silenzi in cui le cose
s’abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l’anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità.
Lo sguardo fruga d’intorno,
la mente indaga accorda disunisce
nel profumo che dilaga
quando il giorno più languisce.
Sono i silenzi in cui si vede
in ogni ombra umana che si allontana
qualche disturbata Divinità.

Nasce in questo stupore davanti alle cose del mondo il desiderio del poeta di essere accoglienza, quasi la poesia fosse una preghiera che non ha pretese: lo stupore e il desiderio non si aspettano nulla, abbracciano tutto quello che viene, lo custodiscono e basta. Ma in questa accoglienza il cuore e il pensiero sono più pronti, più acuito il sentimento di una possibilità d’incontrare un destino buono per ciascuno di noi. Se mai ci sarà possibile conoscere una qualche divinità, sarà solo attrraverso un particolare che si avvicina a noi, sarà solo nell’esperienza di un incontro concreto attraverso il quale si apre il mistero di un altro più grande.

Ma l’illusione manca e ci riporta il tempo
nelle città rumorose dove l’azzurro si mostra
soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.
La pioggia stanca la terra, di poi; s’affolta
il tedio dell’inverno sulle case,
la luce si fa avara – amara l’anima.
Quando un giorno da un malchiuso portone
tra gli alberi di una corte
ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo dei cuore si sfa,
e in petto ci scrosciano
le loro canzoni
le trombe d’oro della solarità.

Pur dentro la disillusione, pur dentro la sconfitta dei giorni che tornano uguali, se mai sarà possibile ritrovare una felicità, quell’epifania della felicità che inseguiamo, essa è il giallo, è la forza, lo splendore dei limoni: non un termine astratto, non un universale, ma quanto di più concreto è possibile incontrare, eppure capace di indicare altro. E il poeta non può che indicare agli altri questo segreto, non può che condividerlo offrendolo dentro i nomi con cui l’ha chiamato.

Così la poesia è innanzitutto fedeltà alle cose, nasce dallo stupore, dall’ascolto delle cose, dalla fedeltà al loro respiro, dall’accoglienza del loro silenzio e fiorisce nella custodia, nella cura del loro stesso destino. E successivamente, così come l’ha ricevuta, la poesia ridona nella parola quella vita che ha custodito. Se il punto di avvio della poesia è la realtà come dono, il suo termine ultimo è l’offerta. O, in altri termini, la poesia è un chiamare le cose, rispondendo a una chiamata che vive dentro le cose stesse; è uno sguardo che diventa voce.
Un percorso tutto umano e materiale che è però in grado di essere un richiamo potente e struggente dell’infinito, dell’assoluto, di ciò che non riusciamo ad abbracciare, ma a cui sentiamo di appartenere e che però non possiamo poeticamente nominare se non nella distanza e nella carne: la parola poetica, dicendo pane al pane, chiama qualcos’altro dentro quello stesso pane. Proprio perché la parola poetica è pienamente immanente, concreta, particolare, aderente alla cosa, è capace poi di indicare altro, di istituire una trascendenza senza la quale non sarebbe parola poetica, parola dell’uomo: canzoni, trombe d’oro, il giallo dei limoni sono la carne dentro la quale conosciamo una felicità possibile per noi; sono, quasi, il corpo del divino che ci chiama.

Corrado Bagnoli

 


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