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Poesie alla madre – seconda parte

Da Wsf

Il cuore di una madre è un abisso in fondo al quale si trova sempre un perdono. (Honoré de Balzac)

Teresa Carreño

Mia madre, mia eterna margherita di Mario Luzi

Mia madre, mia eterna margherita
che piangi e mi sorridi
viva ora più di prima,
lo so, lo so quel che dovrei, pazienza
di forte non è questa ostinazione
d’uomo che teme la sua resa. Forza
è pace. Il sopore che s’insinua
nell’ora giusta fra due giuste veglie
è forza anch’esso, non viltà. Ma ormai
che i tuoi occhi mi s’aprono
solamente nell’anima, due punti
tenaci al fondo del braciere
con cui guardare tutto il resto, o santa,
non è il taglio a fil di lama
che partisce ombra e sole in queste vie
puntate contro il fuoco
del mare all’orizzonte, è un altro il segno
a cui dovrò tener fronte, segno
che ferisce, passa da parte a parte.

******

Dal libro “Il contrario di uno” di Erri de Luca

In te sono stato l’albume, uovo, pesce, le ere sconfinate della terra, ho attraversato nella tua placenta, fuori di te sono contato a giorni. In te sono passato da cellula a scheletro un milione di volte mi sono ingrandito, fuori di te l’accrescimento è stato immensamente meno.

Sono sgusciato dalla tua pienezza senza lasciarti vuota perchè il vuoto l’ho portato con me.
Sono venuto nudo, mi hai coperto così ho imparato nudità e pudore, il latte e la sua assenza.

Mi hai messo in bocca tutte le parole a cucchiaini, tranne una: mamma. Quella l’inventa il figlio sbattendo le due labbra quella l’insegna il figlio.
Da te ho preso le voci del mio luogo, le canzoni, le ingiurie, gli scongiuri, da te ho ascoltato il primo libro
dietro la febbre della scarlattina.

Ti ho dato aiuto a vomitare, a friggere le pizze, a scrivere una lettera, ad accendere un fuoco a finire le parole crociate, ti ho versato il vino e ho macchiato la tavola, non ti ho messo un nipote sulle gambe non ti ho fatto bussaare a una prigione non ancora, da te ho imparato il lutto e l’ora di finirlo, a tuo padre somiglio, a tuo fratello, non sono stato figlio.

Da te ho preso gli occhi chiari con il loro peso a te ho nascosto tutto.
Ho promesso di bruciare il tuo corpo di non darlo alla terra. Ti darò al fuoco fratello del vulcano che ci orientava nel sonno. Ti spargerò nell’aria dopo l’acquazzone all’ora dell’arcobaleno che ti faceva spalancare gli occhi.

******

canto della mamma bambina da Spaccasangue, Iole Toini

Fare la mamma, essere la ninnananna, stare senza senza,
morire morire morire come una qualsiasi fatica.

I

La cuffietta intorno al viso; un fagotto sui gradini
della stanza grande come una forma di lardo,
unico flash della mamma-bambina senza denti né pianto.

Dietro la porta la madre si quieta vegliata dal grufolo caldo, il battito
dentro le cestole; i segni contano le vene.

Madre nera madre troppo
fragile per i boschi per le mele cotogne le primule a novembre
madre dei soffioni senza campo.

Il padre è un peduncolo, grande come il baco
che abita la mummia. Migra dalla pancia all’osso.
Succhia. Geme. E’ un grugnito.

Tagliati a metà, l’uomo e la sua terra, il verro e la sua donna, nel tempo perdonato
della mietitura, crescono la mamma-bambina.

[...]

******

L’isola di Artur Elsa Morante

[...] dalle altre femmine, uno può salvarsi, può scoraggiare il loro amore; ma dalla madre, chi ti salva? Essa ha il vizio della santità… non si sazia mai di espiare la colpa d’averti fatto, e, finché è viva, non ti lascia vivere, col suo amore. E si capisce: lei, povera ragazza insignificante, non possiede niente altro che quella famosa colpa nel suo passato e nel suo futuro, tu, figlio malcapitato, sei l’unica espressione del suo destino, essa non ha nessun’altra cosa da amare. Ah, è un inferno essere amati da chi non ama né la felicità, né la vita, né se stesso, ma soltanto te! E se tu hai voglia di sottrarti a un simile sopruso, a una simile persecuzione, essa ti chiama Giuda! Precisamente, tu saresti un traditore, perché ti va di girare per le vie, alla conquista dell’universo, mentre che lei vorrebbe tenerti sempre con sé, nella sua dimora d’una camera e cucina!
[...] E mentre tu cresci, e ti fai bello, essa sfiorisce… Si sa che la fortuna non può impicciarsi con la miseria, così va la legge di natura! Però, lei, questa legge non la intende: e ti vorrebbe, suppongo, magari disgraziato peggio di lei, vecchio, imbruttito, magari mutilato o paralitico, pur di averti sempre vicino. Lei, per natura, non è libera, e vorrebbe che tu fossi asservito assieme a lei. Questo è il suo amore di madre!
Non riuscendo ad asservirti, intanto, si compiace del suo romanzo d’una madre martire e d’un figlio senza cuore. Tu, è naturale, non hai nessun gusto per un romanzo di tal genere, e te ne ridi: a te piacciono altri romanzi, altri cuori… Essa piange, e sempre più diventa noiosa, senile, funesta! Tutto, intorno a lei, è infestato dalle lagrime. E tu, si capisce, sempre più hai voglia di evitarla. Appena ti vede ricomparire, essa ti accusa… I suoi insulti sono supremi, di uno stile biblico. Il meno che può dirti è infame assassino; e non c’è giorno che non ti reciti questa litania! Vorrebbe, forse, con le sue accuse, ispirarti l’odio di te, e privarti di te stesso, per sostituire, lei, i tuoi orgogli e i tuoi vanti, usurpandoti, come una regina triste [...].

******

Spazio della paura diurna da Salva con nome di Antonella Anedda

A distanza e indietro c’è il sanatorio dove viene ricoverata a vent’anni. Indossa sempre la stessa giacca di lana a quadri ruggine e nero. La neve sferza la sdraio dove resta tutta la mattina con una bottiglia di acqua calda tra le gambe. Ha paura. Di nascosto si cuoce un uovo in un tegame. Tra la porta e il vento il gas stringe il tuorlo in un fuoco azzurro-rame.
Lei dorme con un berretto di pelo e il petto chiuso mentre la strada scricchiola di gelo. La notte ha mille astucci. Uno per ogni fiala.

Guarisce. Nasciamo. Siamo piccoli.
Un giorno lei prende la rincorsa verso i muri.
Si ferisce. E’ guarita ma è malata.
Ammaina le vele. Scuce l’orlo di tutte le tende di casa
le stacca dagli anelli.
Tutta la stanza tintinna.
Faccio le finestre nude, dice.
Apre i rubinetti.
Accatasta le acque come un Profeta.
E’ la Regina della Notte dalla lunga voce.
E’ Turandot e noi le costruiamo una Città Proibita rovesciando i tavoli e le sedie.
Si avvolge nelle stoffe, si sdraia sul pavimento. E’ il Faraone che naviga sul Nilo.

Aspetta che sia tardi. E’ tardi, bisbiglia.

(Lei è ― e non è ― mia madre)

******

Non si arrendono le rose di Savina Dolores Massa

Non ti imbiancare i capelli sotto le lune d’Africa
non ammalarti il giocare del guardare
ricorda che sotto ogni vergogna spiaggia l’onda
che dentro ogni vulcano la vita ribolle pur nascosta
che un faro non ha mai smesso di bruciare gli spicchi delle notti
come quella volta ad Amalfi in fiamme di novembre.

Nove mesi si resta nell’acqua di una madre
e poi si prova
a far quadrare giorni uno sull’altro
a tingere d’azzurro qualche porta
a dimenticare a costruire a demolire e riniziare
sempre in acqua un po’ morendo un po’ ridendo:
gocce di passaggio, voli trattenuti dentro mascelle silenziose.

Rinascerai diverso da quello che sei stato
se più scaltro o diffidente
se ancora più irriverente agli obblighi di strada
nessuno adesso può saperlo, neanche tu
mentre ti sfiori i polsi della resa. Fai lo sforzo di cambiare una vocale,
avrai da me la rosa. Il colore puoi inventarlo.
Il profumo lo troverai nella memoria: libera tua innocenza che dovrai vantare.

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La madre di Julio Cortàzar

Davanti a te mi vedo nello specchio che non accetta mutamenti, né cravatta nuova né la pettinatura così. Lo vedo che è questo che tu vedi che io sono, il pezzo che si è staccato dal tuo sogno, la speranza a boccasotto e coperta di vomiti.
Madre, tuo figlio è questo, abbassa gli occhi perché si azzitti lo specchio e possiamo riconciliare le nostre bocche. A ogni lato dell’aria parliamo di cose diverse con uguali parole. Sei una colonna di cenere (io ti ho bruciata), un asciugamano sull’attaccapanni per le mani che passano e si fregano, un enorme gufo dagli occhi grigi che spera ancora la mia nomina decorativa, la mia dichiarazione conforme alla giustizia, alla bontà del buon vicino, alla morale radiotelefonica. Non posso allegarmi, mamma, non posso essere ciò che ancora vedi in questa faccia. E non posso essere altra cosa in libertà, perché nel tuo specchio di blando sorriso c’è l’immagine che mi schiaccia, il figlio vero e a misura di madre, il buon pinguino rosa che va e viene e tanto coraggioso fino alla fine, la forma che mi hai dato nel tuo desiderio: onorato, affettuoso, diplomato, pensionabile.


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