Griselda Doka è nata a Tërpan, Berat (Albania). È attualmente dottoranda in Studi letterari, linguistici, filologici e traduttologici presso l’Università degli Studi della Calabria. I suoi interessi scientifici si basano sulla lingua e la letteratura albanese, sulle scienze traduttologiche e sulla letteratura della migrazione, con un focus particolare sugli autori di origine albanese. Ha ideato e portato avanti per due edizioni (la III in corso) il Concorso Internazionale della Poesia della Migrazione “Attraverso l’Italia”, patrocinato dal Dipartimento di Lingue e Scienze dell’Educazione dell’Università della Calabria e dal comune di Cosenza. Attiva come operatrice culturale, organizza eventi sul territorio ed è membro di varie giurie letterarie. Oltre alla sua lingua madre, scrive anche in italiano. La sua prima silloge Soglie è stata pubblicata di recente da Aletti Editore. Ha partecipato ed è stata selezionata in vari concorsi letterari, nazionali e internazionali, con relative pubblicazioni in antologie, riviste e blog.
“Come un lamento fiorito in 32 sospiri”
II
Odorava di morte
il tuo grembo
quando come nube primaverile
ti scorrevo dentro
tu non te lo ricordi
troppo tortuosa la fuga
al pallido crepuscolo
pietre appuntite
ti indicavano la via
quando rammendavi
il bianco vestito
che mai avresti indossato
negli occhi mille domande
accovacciate poi nelle mani delle vecchie del paese
un ritornello diventava
la figlia del partigiano
la giovane promessa
al nuovo commercio
di un paese che produceva
sapone nero
e latte in polvere
e tante munizioni
con orgoglio
una cinta stretta
dava la forma all’abito in polyestere
azzurra
uguale alle altre
hai riposto le tue scarpe
dietro la soglia di pietra
nessuna mano ad ungerti la fronte
di miele
né riso
né grano
ti attendevano
nelle narici l’odore acre del rakì
brindava alla nuova arrivata
il vecchio di casa
e i giovani mandavano giù a fondo
i figli che sarebbero arrivati
e le sorti del Partito
che presto avrebbe reso
questo paese
il più prospero del mondo
alcuni dicevano
che meglio di così
non si poteva augurare
hai imparato presto
l’arte del silenzio
e mai rispondesti
sul cosa avvenne dopo
e a quelle prima di te
alle altre come te
nessuna risposta
navigano la mia lingua
solo brevi domande esiliate
perché strisciava per terra lei
la più piccola di casa
anche quando non strofinava
e puliva
e lucidava
il pavimento in cemento
avrei dovuto fare la puttana
mormorava
con tre uomini in casa
che fedelmente
se ne occupa anche oggi
giovane sposa dai capelli ricci
dalle labbra e dai seni gonfi
come le cotogne pesanti
sul ramo sottile
così sono evidenti
al tuo corpo minuscolo
lui si piegava
per stringerti a sé
fiero mentre severi occhi paterni
lo istruivano a sperare
e a far finta di esserci riusciti
VII
Mi ricorderò di te
come la gioia del sacrilegio
a primavera
quando il polline del tiglio
impolvererà il mio sguardo
e il miele evocato dai tuoi sensi
romperà ogni incantesimo
di oblìo
sarò ancora la bella di notte
che si schiude sotto la luna piena
e sarà triste pensarti
in un lamento fiorito
Eppur, sarà primavera
mia gioia proibita
angolo di cielo
che accompagni il vento
dei miei passi
dei tuoi passi
confusi
come quelli di pochi
che sanno amare
nonostante tutto
sarà triste
ritrovarti
nella bellezza
della mia anima
e cantarti
cantarti
ancora gloria
mia maldestra
esultanza
IX
Vorrei strapparti da quella croce
e rinvigorirti le membra illividite
il tuo corpo
il tuo corpo
oì, trimi im,oì
un gesso annerito
che scheggia il mio cuore
oì, oì
ma tu stai lì,
inchiodato
nella tua assenza
Padre
Fratello
Figlio
Mio uomo
l’unico Cristo
che voglio far risorgere
oì, trimi im, oì
Oi, mio prode oi
(ritornello tipico della tradizione funebre albanese)
X
L’ho pagato a caro prezzo
il mio cammino nei pressi
del vulcano
dove vietate sono
le azioni prodigiose
e i passi avventati
l’essenziale è un velo di cenere
sulla soglia dell’oblio
che si vaporizza lentamente
al passaggio del vento
ma io mi dissocio
dalle sfumature anonime
da chi ha giurato il falso
per difendere il mio nome
da chi ha sacrificato quel poco di amore
sotto la tenaglia della paura
sono quella mancia d’orgoglio
del corpo che resta
dopo il terrore
e la dignità venduta
sono il grumo di sangue
che mai piangerà
per vigliaccheria
e mai sputerà
una scintilla
dimenticata
cercherò ancora delle mani amiche
perché io sono quell’anima su tre
che si dissocia
in nome del fuoco
e del coraggio
XXII
Ti ritrovo sempre lì
nella piccola stanza
pallida e fredda
appoggiata ai muri indifferenti
al rimbombo della tua mente
non ti affacci nemmeno alla finestra
spaventosamente chiusa
al buio di fuori
oggetti intirizziti ti fanno compagnia
e non sai di essere calcata
sul foglio bianco della mia solitudine
So che meriti più di due miseri versi
come quelli che scrivevo sul quaderno rosa
e poi strappavo
in colpa per le parole ingoiate
Mamma ascoltami…
Non sbruffare
oggi è la tua festa
respira forte
e non contaminare il mio sangue
Non aggrottare le sopracciglia, madre
non ci rimane molto tempo
e non tutto è stato invano
perché ancora tu domini
il mio silenzio
e sovrana accompagni i miei tics
il tocco dei capelli
le unghia spezzate
e quell’insignificante ticchettìo della penna
che si confonde allo scricchiolio delle dita
non sprecare il tuo sguardo su oggetti inutili
I poster che hai crocifisso sui muri
ti sorrideranno solo da morti
ma in te anche la notte si beffa
e silenziosa ti agiti a scrutarmi
sotto la lampada
mentre ti assicuri di aver chiuso il cancello
Non pretendere il silenzio ancora
a nulla è servito serbare le lacrime
non maledire la mano che ti ha stretto
anche se involontariamente amica
a volte l’ultima luce
è quella che si dimentica per lo sconforto
XXVII
La lucida luce di ottobre
denuda appena il bosco
e schiarisce i nostri pudori
oh straniero amore
non chiedermi di tacere
Io conosco il grido della distanza
e la paziente nostalgia dell’attesa
il bosco è un misterioso scrigno
di linfa
fatto di labbra secche
e occhi bui
in cui ogni istante
sa di muschio
dove appoggio la guancia
per sentire il tuo calore
XXXII
Saprò di essere stata amata
quando dalle mie ferite sgorgherà
un rosario di rose
tra le tue mani
saprò di averti innestato allora
una primavera perenne
amor mio
sarà lunga la via senza di me
sarà dura la vita senza di te
Non ricordo con esatezza
la prima volta che mi persi
forse non riconoscendo il seno di mia madre
(capita a un bambino su tre, le dissero dopo ore di distacco)
e così ho imparato presto a non fidarmi di me stessa
e bastarmi della sufficienza
in un mondo già curvo e calvo
costruivo le mie memorie appassite
scrutavo occhi prosciugati
in continua ricerca di marinai
dispersi
come quella massa di sogni ingiallita
nel cassetto di mia nonna
insieme al silenzio
e al profumo di trigonella
Forse mi sono persa quando ho subito parole
senza se e senza ma
quando non c’era spazio per le repliche
ma solo del senso di vergogna ereditato
che non riuscivo a scrollare di dosso
e seppellire per sempre il male non commesso
La libertà di scegliere non si intrappola
recitava uno slogan che avevo inventato
mentre uscivo di corsa dal matrimonio della piccola Marjeta
Dovrei chiedere perdono a me stessa
per quei finti sorrisi appostati
e quelle distrazioni scompigliate
che maceravano la solitudine
Ma forse sarà stato allora
che ho imparato ad asciugarmi
al chiaro di luna
e origliare i sospiri
delle stelle solitarie
quando colorivo il cielo
di papaveri sulle trecce
quando superavo gli ostacoli
con la leggerezza del vento
e la miseria del mondo
la soffiavo via, oltre il traguardo
O forse mi persi alla partenza
non scelta
non voluta
quando ero ancora acerba
per conoscere il mio bene
e fu allora che divenni goccia
che ti cercava misteriosamente
dietro il vetro freddo
quel confine insuperabile
e gli occhi migravano
in altre migliaia di gocce
il peso dei perché abortiti
diventava più leggero
e la terra schizofrenica
mi cibava di promesse
O probabilmente non ho retto
la violenza della verità
quando mani eroiche mi uccisero la gatta
e tagliarono il gelso
sotto i miei occhi increduli
e fu allora che divenni scheggia
e ancora mi inceppo sull’altalena delle emozioni
aspre, selvagge, amare
incompresi interrogativi
e chiodi arrugginiti
ficcati per sempre nella mia carne
timida e coraggiosa
al limite della ragione
come quando consolavo
l’angelo spettinato
a guarire dal suo rancore
in compenso divenni fata
dal latte incantanto
vorace di ferite e verità
mi copro solo dell’inquietitudine
del vento sulle colline
che tutto abbraccia
e poco rivela