Eccoci dunque a recensire uno dei testi di critica letteraria più famosi scritti negli ultimi 30 anni: Poetics of Postmodernism, di Linda Hutcheon, che per altro con questo testo ha conquistato una cattedra alla University of Toronto.
Il saggio si divide in due sezioni. Nella prima, l’autrice cerca di gettare le basi di quella che chiama “una poetica postmoderna”, basata a suo dire sulla presenza della parodia. La parodia, sostiene la Hutcheon, ha sempre un carattere sovversivo e dunque politico: “What Eagelton (like Jameson – 1984a – before him) seems to ignore is the subversive potential of irony, parody, and humor in contesting the universalizing pretensions of “serious” art.” (19). Concetto molto condivisibile, che la Hutcheon ripete in tutte le salse anche nei capitoli 2 e 8. Ma possibile che mai nessuno prima di lei avesse notato questa peculiarità dell’ironia e della parodia? I miei studi di critica letteraria non mi consentono di rispondere a questa domanda, ma mi pare obbligatorio porsela.
A ogni modo la Hutcheon ci va giù seria sull’importanza del buffo, e a pagina 26 si premura di spiegare: “What I mean by ‘parody’ here – as elsewhere in this study – is not the ridiculing imitation of the standard theories and definitions that are rooted in 18th century theories of wit. The collective weight of parodic practice suggests a redefinition of parody as repetition with critical distance that allows ironic signalling of difference at the very heart of similarity.” (26). Capito? Lei non intende ‘parodia’ come si faceva nell’800, no. Lei dice ‘parodia’ e sottolinea con ciò la ripetizione parodica fatta con distanza critica; proprio questa distanza permette il segnalamento ironico della differenza, vicinissimo a ciò che si intende per similitudine.
Poco più avanti l’autrice ci ammonisce: “While much art uses irony and parody to inscribe and yet critique the discourses of its past, of the ‘already-said’, postmodernism is almost always double-voiced in its attempts to historicize and contextualize the enunciative situation of its art.” (44). E fa qui l’esempio della cultura afro-americana, un archetipo della “doppia coscienza” (DuBois, 1973, 3) nella quale le cultura bianche e afro, quella degli schiavi e quella dei padroni non sono mai riconciliate ma lasciate in una doppia sospensione.
Quindi, a pagina 49, la Hutcheon se la prende con la famosa lista doppia proposta da Hassan per descrivere le caratteristiche del modernismo e del postmodernismo. Era ovvio che qualcuno scegliesse di far ciò, se comincio a capire bene come si fa carriera nell’ambito della critica letteraria… Ecco infatti che la Hutcheon ci dice: carina la doppia lista di Hassan e il suo modo di pensare binario che ha conquistato anche Graff, Eagelton e Newman; peccato che il postmodernismo si muova (secondo chi? ma seconda Linda, of course) in una logica di “sia…che…” piuttosto che in una logica di “aut/aut”. Quindi logica binaria di Hassan: no buono. Logica di collaborazione a coppie di Linda: buono.
In sostanza, la doppia lista di Hassan bisogna stravolgerla sana sana e prenderla tutta. Esempio: Hassan aveva detto che il modernismo è il processo, mentre il postmodernismo è il prodotto? Hutcheon ci dà un contributo fondamentale sostenendo che in realtà il postmodernismo è “il processo del fare il prodotto”. E mettete i corsivi un po’ dove vi pare a voi, tanto avete capito come funziona.
Per finire, la prima parte ci dice che il postmodernismo può esser visto in termini strutturali come la vendetta della “parole”, cioè del discorso saussuriano. O, si spiega meglio Linda: “At least of the relationship between the subject, as generator of parole, and the act or process of generation”. (82). Eh certo, non avevamo appena finito di dire che la logica binaria no buono?
La seconda parte del volume si concentra sul significato di un neologismo hutcheonsiano, quello di “historiographic metafiction”, che in italiano siamo costretti a tradurre come “metanarrativa storiografica”. Si tratta di un paradigma del postmoderno che contesta i confini sia fra arte e teoria che fra narrativa e storia. Secondo l’autrice si deve parlare di metanarrativa storiografica in “those well-known and popular novels which are both intensely self-reflexive and yet paradoxically also lay claim to historical events and personages”.
Detto a parole mie, il neologismo della Hutcheon è quel processo di ri-scrivere (ri-raccontare) la Storia tramite un romanzo (storico) in un modo in cui nessuno storico di professione aveva fatto prima. Mi vengono in mente i romanzi di Umberto Eco, naturalmente, e in particolare il Nome della Rosa, con le sue prime duecento pagine di “esercizi spirituali” per allontanare il lettore poco paziente e per aiutare il lettore paziente a immergersi nel mondo dei monasteri medievali.
Ecco che Linda termina il suo studio ricordandoci: “Postmodern art self-consciously acknowledgs that [...] it is ideologically loaded because of its representational (and often narrative) nature. In other words, “it is not that representations possess an inherently ideological content but that they carry out an ideological function in determining the production of meaning” (Wallis 1984b, XV).
Brutta cosa, a mio parere, quando per spiegare le tue conclusioni, devi ricorrere alle parole di qualcun altro, che ha saputo essere più chiaro di te.