Ci sono cose alle quali non si è abituati, e che quando ci trova a doverle affrontare si rischia di rimanere attoniti, incapaci di applicare una scala di valori razionale reagendo invece d’istinto: una di queste cose è la violenza. Figurarsi una violenza su larga scala e sistematica come nel caso di uno sterminio di massa. La violenza cova nel fondo delle nostre pulsioni, indipendentemente da quanto civilizzati siamo o crediamo di essere, e quando irrompe nel quotidiano dstrugge ogni certezza.
Se poi la violenza sterminatrice è propria di un paese lontano, molto lontano, comprenderla diventa ancora più difficile, senza considerare poi che se stiamo parlando di Pol Pot e dei Khmer Rossi subentra anche un discorso ideologico. In due libri molto diversi come Mekong, di Alberto Arbasino e Cattedrali di Cenere, di Marco Del Corona, le vicende legate al regime dei Khmer Rossi in Cambogia sono un torrente carsico che scorre incessante tra le righe di ogni pagina. I due autori cercano, forse in modi opposti, di affrontare una delle violenze per eccellenza, cercando di razionalizzarla, rinunciando forse a cercare di capirla.
Arbasino, col suo solito stile, compie una vera e propria demolizione del “mito orientale” tanto caro a numerosi intellettuali italiani, spesso di sinstra. In un continuo rimando a luoghi italici sembra voler dire che tutto quello che si cerca altrove lo si ha anche sotto casa, ma certo l’esotismo di luoghi lontani è molto più chic. Nel suo libro il genocidio è proprio l’elemento che mantiene la diversità tra qui e lì, quello che fa si che la Cambogia possa essere “diversa” e non per forza con un’accezione negativa. Arbasino infatti sembra reagire alla violenza come un tipico intellettuale, rimanendone sbigottito, ma anche ammirandola seppur inconsciamente. In alcune pagine sembra emergere il messaggio che meglio starsene a casa propria, tra il quotidiano consueto, ma da altre l’autore arriva quasi a proclamare la superiorità vitale di un popolo che sa ancora essere violento.
Cosa che invece non accade in Del Corona, che molto più pacatamente cerca di concentrarsi non sul “noi” ma sul “loro”, cercando di vedere le cose da una prospettiva cambogiana. Impresa titanica ed impossibile, non si può essere altro da sé, e se Arbasino affoga questa certezza in un profluvio di parole, Del Corona si comporta all’opposto tentando di farsi solo narratore di fatti ai quali partecipa, ma anche lui finisce per scontrarsi con il tema del genocidio, quasi incapace di accettare che la violenza si sia rifatta quotidiano, con gli ex Khmer Rossi oggi funzionari di partito e amministratori di villaggi. Certo lui, con una formazione diversa da quella di Arbasino, ha un taglio più documentarista e più attento al dettaglio ma la violenza si sente, impossibile raccontarla prescindendo dalle proprie emozioni. E quindi anche Del Corona arriva a parlare di sé stesso, dei suoi dubbi, mantenendo fede alla premessa dove dice che la Cambogia lo rapisce, lo bracca, senza che lui ne capisca il motivo.
Ed un altro autore proprio questo ha voluto fare: capire. Ed in particolare cercare di fare luce su cosa sia davvero successo in Cambogia tra il 1975 ed il 1979, e per farlo si è affidato a chi quella violenza l’ha vissuta. Stiamo parlando di Michael Vickery e del suo Cambodia 1975 – 1982, un libro coraggioso e, come spesso capita a chi tenta di capire, osteggiato da molti. Vickery basa il suo libro su interviste fatte nei campi profughi allestiti in Thailandia, e dai dati raccolti emerge un quadro della Cambogia sotto Pol Pot molto diverso da quello comunemente ritenuto quello reale. Non si tratta di revisionismo spicciolo (ma cosa sarebbe la Storia senza revisione?) ma di rifiuto della semplificazione; ed infatti da questo libro emerge una Cambogia diversissima da zona a zona, sia per condizioni di vita che per “gestione del potere”, dove le vicende interne al regime di Pol Pot frantumano l’idea di una dittatura monolitica, e dove il totale delle vittime del genocidio sembra da più parti, spesso interessate, decisamente sovrastimato. Certo, non si tratta di macabra contabilità, ma sono i numeri a rendere la violenza mediatica, facendone verità.
La violenza quindi come qualcosa che non va creduto così lontano da noi, essendo parte di noi, e soprattutto che non va negata o demonizzata. La presunzione che i violenti siano gli altri non fa che generare mostri, che si ritengono innocenti. Solo cercando di capire, mettendoci in discussione, potremo impedire che l’irrompere della violenza generi una reazione di chiusura difensiva, che non può che portare nuova violenza, in una spirale senza fine.