Una specie di semaforo a "risparmio energetico" a Thibaw
La Birmania è un'opportunità. Un opportunità a orologeria, col display del conto alla rovescia nascosto. Un'occasione, un modellino, un esempio concreto per riflettere sui temi dello sviluppo, la globalizzazione e le relazioni internazionali che fra qualche anno potremmo non avere più. Uscire dall'aeroporto di Rangoon significa entrare in un mondo che negli ultimi sessant'anni si è sviluppato poco, o per certi versi nulla. Un sistema che per alcuni aspetti è addirittura tornato indietro nel tempo. Un luogo in cui la gente gira a piedi, in bicicletta o in auto scassate su strade polverose che tagliano distese di spazzatura, sale in autobus con un sacco di riso e due galline, non si lamenta se il treno procede ai venti all'ora rimbalzando su rotaie ondulate e sconnesse, si cucina la cena su un fuoco a legna, se un dente fa male a causa di una carie lo toglie, non si preoccupa della moda e degli ultimi ritrovati tecnologici (anche se quest'ultima affermazione ormai è vera solo in parte). E nonostante tutto appare poco stressata, moderatamente felice, sorride spesso, vive con un certo ottimismo.Eppure se uno osserva bene non potrà non notare le prime avvisaglie di uno sviluppo che probabilmente nel giro di pochi anni stravolgerà tutto. E ogni o volta che ciò accade si cominciano a sentire i triti commenti di alcuni visitatori stranieri.
Commenti che io dividerei in due categorie. I primi sono quelli che suonano pressapoco così: "Che tristezza pensare che tutto ciò verrà presto barattato per un po' di modernità." I secondi si possono esemplificare nel seguente modo: "E' sempre la stessa storia, arriviamo noi, i ricchi, gli irrispettosi, gli occidentali, gli europei, i cinesi, gli indiani, gli australiani, gli AMERICANI, gli lasciamo quattro gingilli scintillanti e con un gioco di prestigio facciamo sparire tutto il resto."Commenti apparentemente profondi, ma in realtà un po' superficiali, figli di un atteggiamento che potrebbe sembrare romantico, e magari pure lo è, ma che denota anche un certo egoismo.Cercherò di spiegarmi meglio. Cominciamo con la prima categoria. Osservando il paese dalla posizione privilegiata di un turista in visita per poche settimane, un volontario di una ONG, un insegnante di informatica all'università, ci potremmo anche augurare che questo posto non cambi mai, perché è tanto bello vederlo così. Potremmo però farlo a cuor leggero solo se mentre lo osserviamo stiamo rintanati dietro lo schermo antiproiettile del nostro status di stranieri, consapevoli che non appena la situazione dovesse mettersi male possiamo sempre dare fondo alla mazzetta di dollari che abbiamo in cassaforte, comprarci un volo per Bangkok, Kuala Lumpur o Singapore, essere fuori di qui in un paio d'ore e sbarcare in un paese dove gli ospedali sono moderni, i servizi efficienti, la tecnologia avanzata e il cibo buono, igienico e magari anche bio. Ma perché uno il cui unico passaporto dice "Unione del Myanmar" (sempre che ne abbia uno) e che guadagna cinquanta dollari al mese (sì, sì, 50, come un tizio che lavora in una delle guest house dove abbiamo dormito) dovrebbe trovare triste lo sviluppo tecnologico e sociale? Perché non dovrebbe aspirare a viaggiare con mezzi più comodi su strade più sicure, in un paese con un sistema sanitario efficiente e moderno, tecnologie avanzate e perché no, anche qualche nuovo stupido vezzo? Così come facciamo noi d'altra parte? Perché lui in fondo non sa cosa vuole e noi lo assicuriamo che è meglio se il suo paese rimane così com'è ora? Non credo proprio.Parliamoci chiaro, una delle ragioni principali per cui uno stato che alla fine della seconda guerra mondiale era assieme al Giappone il più avanzato dell'Asia è rimasto, o meglio è diventato così è rappresentato dalla serie di regimi dittatoriali che lo hanno sigillato dal resto del mondo, perseguitando i dissidenti, sparando sulle folle di manifestanti disarmati, mandando ai lavori forzati persino dei comici che avevano fatto una battuta su un pezzo grosso dell'esercito rivelatosi piuttosto permaloso, tenendo agli arresti domiciliari la leader del movimento di opposizione, il partito di maggioranza effettiva. Una maggioranza che chiede di non essere più immortalata in una foto scattata sessant'anni fa, di essere, o meglio di diventare finalmente come tutti gli altri. Che a questi altri piaccia oppure no.Passiamo alla seconda categoria di commenti. La viscida globalizzazione e la ghiandola pulsante che la secerne: l'America. Gli Stati Uniti fino a un paio di secoli fa erano un luogo scarsamente abitato (o meglio abitato da una popolazione che è stata poi sterminata) che si è in seguito popolato grazie all'immigrazione proveniente da tutti gli angoli della terra: inglesi, irlandesi, tedeschi, italiani, russi, nigeriani, coreani, cinesi, libanesi, messicani, cubani. Gente di tutto il pianeta è andata in America. Persone che in alcuni casi sono arrivate lì con buona volontà e qualche idea e trovando un ambiente idoneo hanno realizzato un buon prodotto o un servizio, l'hanno commercializzato e infine esportato, persino nel paese da cui erano partite. L'America avrà anche tante colpe e difetti ma, per questo aspetto almeno, siamo tutti americani. Addossare la responsabilità dello sviluppo globalizzato all'America significa addossarla al globo intero. Tutti responsabili, nessun responsabile. Ma responsabile di cosa poi? Di vendere qualcosa a qualcuno che la vuole comprare? Chi compra è responsabile tanto quanto chi vende. Certo, chi vende fa pubblicità, e la pubblicità crea necessità che fino a un secondo prima non esistevano, è vero. Ma queste necessità sono generate andando a colpire gli individui in un punto sensibile, una zona grigia, un tasto rosso che abbiamo tutti. E, ognuno a suo modo, proviamo tutti un certo piacere, forse perverso, quando quel tasto viene premuto. E poi il meccanismo non si applica soltanto a rossetti e telefoni: può funzionare anche col cibo sano o i medicinali, beni immateriali come un romanzo o un bel film, o anche idee nobili come il rispetto dei diritti umani e dell'ambiente. Non c'è nessuna colpa. Siamo fatti così. Questo è il cazzo di modo in cui funziona l'essere umano, la nostra natura, il nostro mondo. Forse la cosa più strana, cioè meno naturale, è che a qualcuno tutto ciò possa sembrare triste, ingiusto o addirittura...sbagliato.